Per l'Italia sarebbe importante tutelare l'agroalimentare dai nuovi dazi Usa. Può farlo aiutando l'Ue a trattare con Washington
L’Unione Europea si prepara a rispondere ai dazi varati mercoledì da Donald Trump, ma Ursula von der Leyen ha anche ricordato che “non è troppo tardi per i negoziati”. Negoziati per i quali ha promesso di lavorare Giorgia Meloni, che ha cancellato tutti gli impegni di ieri per focalizzarsi proprio su ogni sforzo possibile per evitare una guerra commerciale con Washington che, come ha stimato Confindustria nei giorni scorsi, potrebbe costare anche mezzo punto di Pil all’Italia quest’anno. I settori della nostra economia più interessati dalle nuove tariffe Usa sono la meccanica e l’agroalimentare, mentre la farmaceutica dovrebbe essere esentata. Abbiamo chiesto un commento a Marco Fortis, direttore della Fondazione Edison e docente di economia industriale all’Università Cattolica di Milano.
C’era molta attesa per l’annuncio di Trump sui dazi. Qual è il suo commento dopo averlo ascoltato?
Mi sembra che il Presidente americano stia cercando di portare avanti il copione con cui ha vinto le elezioni per cercare di soddisfare la pancia del Paese costituita dagli Stati meno opulenti, come quelli industriali del nord e agricoli del centro, in cui la crisi ha morso di più negli anni. Per farlo, tuttavia, sta cercando di rappresentare il mondo esterno, Paesi alleati compresi, come quelli che hanno sfruttato gli Stati Uniti e portato alla distruzione di stabilimenti produttivi e posti di lavoro. È un discorso che non ha aderenza con la realtà dei fatti, ma che serve a imbonire un elettorato arrabbiato.
Di chi è la colpa, allora, della chiusura di stabilimenti produttivi e della perdita di posti di lavoro negli Stati Uniti?
Come ha detto lo stesso Trump, un tempo gli Stati Uniti producevano microchip, computer ed erano all’avanguardia, ma se oggi non lo sono più non è per colpa di qualche Stato estero, ma del fatto che le multinazionali americane hanno delocalizzato la produzione in altri Paesi, soprattutto in Cina. Il tycoon dovrebbe, quindi, prendersela soprattutto con il sistema economico americano, con le imprese e le multinazionali del suo Paese, che hanno di fatto messo in ginocchio operai e agricoltori. Non può, però, farlo, perché l’establishment economico-finanziario degli Usa oggi lo sta sostenendo.
Trump ha calibrato le nuove tariffe anche sulla base dei surplus commerciali che alcuni Paesi, Ue compresa, vantano nei confronti degli Stati Uniti.
I dazi applicati nei confronti dell’Ue sono inferiori a quelli imposti a Cina e Giappone, anche perché non è che le imprese americane abbiano delocalizzato le loro produzioni in Europa. Detto questo, credo che occorra guardare meglio ai numeri relativi agli scambi commerciali tra le due sponde dell’Atlantico, perché se è vero che per quanto riguarda i beni l’Ue ha registrato nel 2023 (ultimo anno per cui sono disponibili i dati) un surplus di circa 215 miliardi di euro, in crescita rispetto ai 188 del 2019, considerando anche i servizi il dato del 2023 scende a 100 miliardi, contro i 170 del 2019.
A cos’è dovuta questa discesa?
Al fatto che per quanto riguarda i soli servizi nel 2023 l’Ue ha registrato un deficit di 114 miliardi di euro verso gli Usa, quando nel 2019 era solo di 17 miliardi. E a pesare in modo consistente è la voce relativa ai diritti di proprietà intellettuale, con un deficit nel 2023 di 127 miliardi (erano 15 nel 2019).
Cosa comprende questa voce?
App, film e serie tv in streaming, licenze per software forniti da multinazionali americane che magari hanno anche una sede fiscale in Irlanda. L’Ue dovrebbe fare almeno presente a Washington questa situazione e anche evidenziare che il surplus registrato negli scambi di beni riguarda prodotti che in larga parte gli Stati Uniti non realizzavano o non realizzano e che quindi non hanno comportato la perdita di posti di lavoro americani.
Nemmeno per quanto riguarda le auto?
I modelli di auto tedesche che andavano e vanno per la maggiore negli States sono piuttosto diversi da pick-up e jeep che vengono prodotte in territorio americano. Sarà semmai interessante vedere se la Casa Bianca esenterà dai dazi Canada e Messico per non mettere in difficoltà la produzione di vetture negli Usa, vista la dipendenza dalla componentistica che i produttori nazionali hanno delocalizzato nei Paesi confinanti. Se arrivasse questa esenzione avremmo la dimostrazione che l’Amministrazione non guarda al disavanzo commerciale o alla perdita di posti di lavoro.
Oggi c’è molta preoccupazione nel mondo imprenditoriale italiano. Quale sarà l’impatto di questi dazi sul Made in Italy?
È difficile dirlo, perché non è chiaro con quali modalità specifiche verranno applicate le tariffe annunciate. Bisognerà anche vedere se ci saranno o meno delle sospensioni o delle esenzioni come si è già visto per Canada e Messico. Di certo non c’è un prodotto del made in Italy che abbia fatto perdere un posto di lavoro negli Usa negli ultimi 20 anni. Anzi, casomai ci sono state imprese, anche alimentari, che hanno aperto stabilimenti Oltreoceano creando posti di lavoro. Detto queste, ci sono prodotti, come il Parmigiano Reggiano o le acque minerali, che si possono considerare “premium”, per cui non necessariamente l’aumento del costo porterà a una riduzione significativa dei consumi.
E per quanto riguarda i vini? È difficile considerarli prodotti “premium”…
Per quanto riguarda il settore di vini, non si sa se verranno applicati dazi differenziati sugli alcolici, quindi bisognerà vedere, al di là delle giuste preoccupazioni delle associazioni di categoria, quale sarà la situazione finale. Penso che bisognerebbe ricordare in Europa, in modo che lo si faccia presente a Washington, che ci sono prodotti agroalimentari italiani che non sottraggono posti di lavoro agli americani. Se decine di migliaia di imprese negli Usa hanno chiuso non è colpa del Barolo o del Pecorino, piuttosto che delle Ferrari o degli yacht italiani.
Da quello che ha appena detto ritiene, quindi, necessario che vi sia una risposta unitaria europea ai dazi americani?
Sì, come ha detto il presidente della Repubblica Mattarella, occorrerebbe una risposta dell’Ue serena, compatta e determinata. Per l’Italia sarebbe importante riuscire a portare a casa la salvaguardia di alcuni prodotti agroalimentari e impedire che ci sia un esodo di investimenti realizzati da imprese farmaceutiche americane che hanno scelto il nostro Paese per aumentare la loro competitività e la loro capacità di servizio sui mercati mondiali e non certo per pagare meno tasse.
Anche la meccanica, e non solo l’agroalimentare, rischia di essere colpita dai dazi…
Non saranno tariffe sui macchinari, come quelli per gli imballaggi, che sappiamo fare bene solo noi, piuttosto che sulle Ferrari o sugli yacht a metterci in ginocchio. Occorre evitare dazi che colpiscono settori che hanno diramazioni socio-economiche più ampie nel nostro tessuto produttivo: i produttori di vino, salumi e formaggi sono tanti e sono diffusi praticamente su tutto il territorio italiano. Abbiamo perso 6 miliardi di export verso la Germania in due anni, ma nessuno sembra essersene accorto, per cui il problema non è perdere una cifra analoga di export verso gli Usa, ma evitare danni per quelle economie locali così brillanti e attive in cui sono immerse alcune produzioni, soprattutto quelle agroalimentari.
È possibile far valere questi interessi italiani in una trattativa tra Usa e Ue?
Gli accordi commerciali vanno gestiti a livello europeo e occorre, quindi, fare in modo che queste istanze ben illustrate siano portate dall’Italia in Europa. Se poi c’è qualche interlocuzione diretta tra Roma e Washington credo non possa guastare.
Meglio in ogni caso che l’Ue eviti contro-dazi visto che, come ha detto anche Confindustria, una guerra commerciale peggiorerebbe la situazione economica?
Le poche esperienze storiche mostrano che le fasi protezionistiche portano a risultati persino peggiori di quelli inizialmente immaginati. Occorre, quindi, negoziare con gli Stati Uniti. L’Ue, anziché contro-dazi su whiskey e Harley Davidson, dovrebbe mettere sul tavolo i numeri che ho ricordato prima sugli scambi commerciali relativi ai servizi, soprattutto per quel che riguarda i diritti di proprietà intellettuale, che potrebbe anche pensare di tassare in modo specifico e differenziato: non credo che le aziende vicine al Presidente Usa ne sarebbero contente.
(Lorenzo Torrisi)
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