Il commissario europeo per il Commercio Sefcovic si trova a Washington per trattare sui dazi tra Ue e Stati Uniti
È iniziata ieri a Washington la missione del commissario europeo per il Commercio, Maros Sefcovic, per provare a trovare un accordo sui dazi tra Ue e Stati Uniti. Risultano, quindi, molto utili le previsioni contenute nel XX Rapporto del Centro studi EconomiaReale di Roma, presieduto da Mario Baldassarri, riguardanti proprio gli effetti sull’economia mondiale, europea e italiana delle tariffe annunciate dall’Amministrazione Trump. Previsioni che sembrano essere state “confermate” dalle parole del Presidente della Fed Powell ieri a Sintra sulla situazione economica del suo Paese.
«Abbiamo considerato – ci spiega l’ex viceministro dell’Economia – due ipotesi: quella che i dazi rimangano ai livelli del 2024 anche nei prossimi anni e quella che da quest’anno entrino in vigore le tariffe annunciate dalla Casa Bianca: 140% per le merci cinesi, 25% per quelle provenienti da Canada e Messico, 20% per le importazioni dall’Ue e 10% per quelle provenienti dal Regno Unito. I profili ottenuti tra queste due ipotesi rappresentano quindi una “forchetta” potenziale entro la quale potranno ricadere concretamente tutti gli eventuali accordi che verranno introdotti».
Cosa accadrebbe nel caso peggiore, qualora, quindi, venissero confermati i dazi annunciati da Trump?
Ci siamo limitati agli effetti che si potrebbero produrre nel biennio 2025-26, che per l’economia globale equivarrebbero a un -3% di Pil, pari a circa 3.900 miliardi di dollari, come se scomparisse il Pil di Italia e Spagna. Tuttavia, l’economia che subirebbe la maggiore contrazione sarebbe quella americana, con un -5% di Pil (1.800 miliardi di dollari), seguita da quella cinese (-3,7% di Pil, circa 900 miliardi di dollari) e da quella europea (-2% di Pil, poco più di 400 miliardi di dollari). Per quanto riguarda l’Italia, la perdita del Pil sarebbe dell’1,7%, pari a circa 44 miliardi di dollari. Questi numeri ci dicono alcune cose molto interessanti.
Quali?
In primo luogo, che i dazi sono negativi per tutti, ma principalmente per chi li impone. Inoltre, guardando alle simulazioni sui profili della bilancia commerciale americana, i dazi avrebbero un effetto pressoché irrilevante e non aiuterebbero a migliorare i conti pubblici di Washington, dato che il deficit resterebbe sopra il 7% del Pil e il debito/Pil aumenterebbe. Non a caso stiamo già assistendo a una svalutazione del dollaro e a un aumento dei rendimenti dei T-bond decennali che hanno superato quelli dei Btp di pari durata. La nostra stima era di una svalutazione del biglietto verde del 15% nel 2026, ma ormai siamo quasi arrivati a quella soglia in meno di un anno. Si tratta di un trend pericoloso per tutti.
Perché?
Perché sia il dollaro che i titoli di stato americani da circa 70 anni rappresentano un bene rifugio, ma se smettono di essere percepiti come tali c’è il rischio che vengano sostituiti non soltanto dall’oro, ma anche da quella pletora di cryptovalute che non sono soggette ad autorità di controllo e che in gran parte si stanno rivelando delle truffe. Negli ultimi 25 anni abbiamo avuto una globalizzazione senza Governo del mondo, ma quanto meno c’è stata un’ancora, quella della valuta americana, che oggi rischiamo di perdere.
Tra l’altro la svalutazione del dollaro rappresenta anche un dazio implicito…
Si tratta di un dazio non implicito, ma esplicito, su tutto: se il dollaro si svaluta del 15% vuol dire che tutte le merci e i servizi importati dagli Stati Uniti costeranno il 15% in più.
Da quel che è emerso negli ultimi giorni sembra che l’Ue e gli Stati Uniti possano raggiungere un accordo per tariffe al 10%. Cosa accadrebbe in quel caso?
I danni saranno minori, ma sempre danni saranno. La perdita di Pil in Europa nel 2025-26 potrebbe essere ridotta all’1% (circa 200 miliardi di dollari), mentre per gli Usa si potrebbe avere una crescita zero nel 2026 anziché una recessione. L’ideale sarebbe riuscire ad arrivare a un’area di libero scambio tra Usa e Ue com’era stato ipotizzato durante il primo mandato di Trump. Se ci fosse un sussulto di ragionevolezza, le trattative tra Bruxelles e Washington dovrebbero essere su come azzerare i dazi, perché ne deriverebbe un vantaggio per tutti.
Possibile che a Washington non si sia a conoscenza degli svantaggi dei dazi?
Debbo dire che il segnale arrivato dalla votazione al Senato sulla Legge di bilancio (51 voti a favore, tra cui quello del Vicepresidente Vance, e 50 contrari), fa capire che anche all’interno del partito Repubblicano e tra i supporter di Trump qualche dubbio sulle politiche dell’Amministrazione sta emergendo.
Non si può, quindi, che attendere un ripensamento degli Stati Uniti?
A mio avviso, l’Europa ha di fronte un’occasione imperdibile per varare le riforme strutturali, sia sul piano istituzionale che sul piano economico-finanziario, per costruire un’entità federale, unica dimensione in grado di dare al Vecchio continente un’integrazione necessaria, anche se magari non pienamente sufficiente, per “partecipare” al confronto con gli altri principali attori globali in questo XXI secolo. L’Ue deve compiere un salto istituzionale verso la produzione diretta di beni pubblici europei, per la quale occorre un bilancio federale. Per cominciare bisognerebbe come minimo raddoppiare e rendere strutturale il Next Generation Eu.
E l’Italia cosa dovrebbe fare?
L’Italia, di fronte a questa situazione incerta e fragile, dovrebbe varare le riforme strutturali che finora non ha fatto, partendo da quella sul bilancio pubblico, in modo da trovare spazio per investimenti in infrastrutture materiali e immateriali, innovazione tecnologica, alta formazione, capitale umano, ecc. È chiaro che gli effetti di tutto questo si potranno vedere almeno dopo 3-4 anni.
Visto quest’orizzonte temporale c’è da chiedersi se queste riforme siano spendibili elettoralmente…
Questo è il nodo: la politica guarda a 3-6 mesi invece che a 3-6 anni. Queste riforme devono diventare spendibili, occorre comunicare all’opinione pubblica il senso di simili operazioni, tenendo bene a mente che gli elettori non sono stupidi, tant’è che vanno sempre meno a votare. Forse perché ritengono che il dibattito politico non riguardi la loro vita.
Un discorso simile vale anche a livello europeo?
Sì e spiega lo spostamento dei voti verso le frange estreme. In Italia abbiamo un Governo che questi ragionamenti sembra averli capiti, il problema è come passare dalla comprensione all’azione.
In Europa questi ragionamenti sono stati compresi?
Non appaiono segnali in tal senso. Basta vedere com’è stato trattato il problema delle spese per la difesa al recente vertice Nato.
In che senso?
Il tema di fondo è chi deve provvedere alla difesa europea. Già dai tempi di Obama sapevamo che gli Usa volevano un maggior impegno europeo, ma abbiamo fatto orecchie da mercante per continuare ad alimentare il welfare europeo.
Allora oggi dobbiamo rinunciare al welfare per finanziare le spese nella difesa?
No. Bisogna considerare questi beni pubblici come investimenti e cambiare le regole del Patto di stabilità: i bilanci nazionali devono prevedere deficit zero per la spesa corrente, ma non per gli investimenti, che agiscono sulla produttività totale dei fattori nel medio termine, rendendo possibili le riforme strutturali, che altrimenti restano parole vuote.
(Lorenzo Torrisi)
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