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Home » Esteri » Medio Oriente » SCENARIO GAZA/ 1. Israele-Hamas, il dramma di una guerra che non è in grado di “costruire” nessuna pace

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SCENARIO GAZA/ 1. Israele-Hamas, il dramma di una guerra che non è in grado di “costruire” nessuna pace

Leonardo Tirabassi
Pubblicato 24 Luglio 2025
Bombe sugli aiuti a Gaza

Striscia di Gaza, bombe sulla distribuzione degli aiuti umanitari (ANSA-EPA 2025)

Le deportazioni hanno segnato anche i grandi conflitti mondiali, a Gaza però nessuno ha veri progetti di pace per i palestinesi. Neanche i Paesi arabi

Il massacro del 7 ottobre e la rabbiosa reazione israeliana hanno riaperto, ma meglio sarebbe dire riportato all’attenzione internazionale, il conflitto israelo-palestinese. Ma anche le guerre più terribili prima o poi devono finire, non importa quanta distruzione e sofferenza abbiano causato.

La giustizia, la storia, la memoria sembrano ad un certo punto non contare più nulla. A poco serve sapere chi una volta aveva ragione e chi aveva torto. Conta chi vince, chi è più forte. Conta la capacità di scrivere la parola fine e di ricominciare da capo.


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Nella storia c’è una sorta di rinascita che accomuna sconfitti e vincitori. Non ci sono paci “giuste”. Il fine è la stabilità futura per entrambi i contendenti. A chi è stato sconfitto, tocca la necessità di riconoscere la realtà. Al vincitore, la responsabilità di dettare condizioni che guardino al futuro e aprano possibilità di vita agli ex nemici. Ai due estremi stanno la pace vessatoria di Versailles, che portò alla Seconda guerra mondiale e, all’opposto, la fine dello stesso conflitto che venne scritta a Yalta.


Papa Leone XIV: “Italia media per la pace, lavoriamo insieme”/ “Pronto alla pensione ma mi sono arreso a Dio”


Ma le due guerre mondiali sono state guerre totali. Non c’erano dubbi su chi era il vincitore, e la sconfitta assoluta militare significava la sconfitta assoluta politica. Così fu e alla pace si arrivò con la resa incondizionata e il cambio di regime istituzionale a Tokyo, Berlino e Roma.

Ai vincitori fu perdonato tutto, dai crimini di guerra alla pulizia etnica. Che cosa furono tra il 1944-45 e il 1950 quei 14 milioni di tedeschi espulsi dall’URSS, dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia? Quelle file di persone lunghe chilometri che scappavano dalle truppe sovietiche, lasciando sul campo migliaia di morti di stenti?


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Fu la stessa pulizia etnica continuata dopo la guerra e che toccò anche ai 300mila italiani in Istria. D’altronde nel 1923 il Trattato di pace di Losanna tra Grecia e Turchia aveva sancito uno scambio di popolazioni tra i due Paesi senza tanto scandalo. Ma greci, turchi, italiani e tedeschi lasciavano un Paese, quelle che erano state le loro case per secoli, per andare in un’altra patria che in qualche modo li accoglieva e sosteneva.

Cioè l’espulsione di intere comunità non ha generato nuovo odio e risentimento e non è stata occasione di nuove guerre. Nella tragedia dei destini individuali travolti dalla storia, quegli spostamenti di popolazioni, se non giustificabili moralmente, si sono risolti in qualcosa di razionale. Sul piano politico razionalità fa rima con stabilità e ordine. Lo sapevano bene i romani, che avevano istituzionalizzato la pratica della deportazione di intere popolazioni, dai galli ai cartaginesi, agli apuani.

Una pace la si giudica più o meno “giusta” non tanto sulla base dei metodi impiegati in guerra, ma dei risultati, cioè quale pace una guerra costruisce. È stato così anche nel caso delle guerre di liberazione e di decolonizzazione che afflissero Gran Bretagna, Francia, Olanda e perfino gli USA in Vietnam.

In quelle guerre asimmetriche, il combattente più debole – algerino, vietnamita, tunisino, idonesiano – non esitò ad usare ogni mezzo, anche il terrorismo, per combattere il nemico occidentale molto più forte sul piano militare ed economico. Furono guerre dove si sono scontrate forze incommensurabili per volontà, capacità, organizzazione. Ma il fine politico era chiaro, e i mezzi militari impiegati avevano lo scopo di logorare all’infinito la volontà e risorse dei colonizzatori. Il fine militare, spezzarne la volontà. Lo scopo politico, la liberazione cioè il rimpatrio dell’occupante.

Il dramma della Palestina è tutto qui. I palestinesi non hanno una patria che li riprenda, non hanno una nuova terra da colonizzare, nessuna “America” da scoprire, nessun paese amico che li voglia ospitare. Possono solo rimanere lì, perché anche la strada dell’integrazione con il nemico, vedi l’Alto Adige con l’Italia, è ovviamente preclusa. Sono contrari la demografia e l’etnicità dello Stato di Israele.

Adesso a poco serve fare la storia dei torti e delle ragioni. Gaza è un campo di prigionia a cielo aperto, ma anche un Stato fallito sul nascere. Non ha un’economia propria, ma una società dove l’odio assoluto per il nemico è diventato fonte di sopravvivenza, lo sbocco professionale per un una gioventù che si sente destinata al martirio dalla nascita.

La guerra è terribile, le immagini dei bambini mutilati lasciano senza fiato. Ma quello che crea ancor più sgomento è l’assoluta assenza di idee su come dare una pace a quel popolo. Non una parola da Israele, che continua a bombardare e distruggere nella speranza di sconfiggere Hamas. Non una proposta dai Paesi arabi confinanti. Silenzio dalla potente Turchia e dalla ricca Arabia Saudita. Niente dal Libano e dalla Giordania, che pure ospitano milioni di palestinesi nei campi profughi decenni dopo le guerre arabo israeliane. Unico a parlare lo screditato e vecchio Mahmud Abbas. Niente dagli Stati Uniti, e nemmeno dalla Russia, che ben conosce il dossier mediorientale in tutte le sue sfumature.

La conclusione allora non può essere altro che una constatazione terribile. Ancora i tempi non sono maturi per la pace. Ancora non ci sono vincitori e vinti. Ancora entrambe le parti sperano nei risultati della guerra.

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