Per la permanenza del Governo la Costituzione pone una condizione minima: “deve avere la fiducia delle due Camere” (art. 91, comma 1). Se poi, per la cessazione del Governo, la Costituzione prevede la mozione di sfiducia, ovviamente non si proibisce che le dimissioni siano rassegnate anche in assenza di un voto parlamentare. Ed infatti, come noto, quasi tutti i Governi repubblicani non si sono dimessi a seguito della sfiducia parlamentare, ma perché costretti da ragioni politiche che ne impedivano la prosecuzione.
Si trova in queste condizioni l’attuale Governo? I tanti nodi che affliggono la maggioranza giungeranno al pettine sino a produrne la deflagrazione? Non spetta a noi prevedere il futuro, più o meno immediato. Meno avventurosamente, però, ci si può domandare perché un Governo all’apparenza così fragile risulti dotato, invece, di una stabilità di non immediata percezione.
A nostro avviso, almeno cinque fattori hanno favorito e stanno favorendo, almeno sino ad ora, la permanenza dell’esecutivo, pure in presenza di eventi così drammatici e potenzialmente dirompenti come la crisi sanitaria.
Il primo è l’assenza di alternative interne al presente quadro politico. L’horror vacui domina sempre il ragionamento politico e nessuna azione è fine a sé stessa. Senza la concreta disponibilità di una diversa e praticabile soluzione, è sempre preferibile mantenere la posizione e lasciare ad altri l’iniziativa. E se nessuno prende l’iniziativa perché non ha facoltà di scelta, le pedine restano ferme. E ciò vale anche per le opposizioni, che alzano la voce, ma non giungono al compimento di passi estremi, né riescono a coagulare la necessaria forza d’impatto. Senza contare, poi, l’evidente attesa delle prossime scadenze elettorali e referendaria, e la prospettiva della tagliola del numero dei parlamentari. Fattori, però, di stabilizzazione temporanea, in quanto potranno ribaltarsi e trasformarsi in acceleratori della crisi se i conflitti diventeranno irrisolvibili o di fronte all’esito particolarmente sfavorevole delle tornate elettorali.
Il secondo fattore è costituito dal rapporto con l’Unione Europea. Un rapporto che, pur non senza asperità, ha consentito di giocare la partita del “vediamo cosa succede” nell’attesa di auspicabili benefici, prestiti o concessioni di vario tipo. E nello stesso tempo l’Unione, anche per gli interessi che muovono le grandi, medie e piccole potenze europee, si è voluta manifestare più come salvaguardia dell’esistente che come miccia per innestare novità. Certo, quando le cose si chiariranno e saranno evidenti i numeri effettivi del dare e dell’avere, l’atteggiamento europeo potrà assumere toni più arcigni e pretensivi di quelli promessi o ipotizzati. Così non si può escludere che, se ciò dovesse produrre conseguenze palesemente contrarie ai nostri interessi, ne sarebbe condizionato il giudizio espresso dai cittadini, ad esempio, nei contesti elettorali a carattere locale che si svolgeranno nei prossimi tempi. Con possibili riflessi, quindi, sul Governo nazionale.
Il terzo fattore è rappresentato dalla collocazione dell’Italia nell’incerto determinarsi delle relazioni internazionali. La posizione di cerniera tra Nord e Sud, tra oriente (anche lontano) e occidente, ha contribuito a rendere il nostro Paese un originalissimo laboratorio di esperienze politiche, istituzionali, economiche e sociali. Taluno, dall’estero, ci guarda con meraviglia, altri con atteggiamento compassionevole. Non conoscono, probabilmente, il carattere proprio del popolo italiano, forgiato da secoli di profittevoli scambi e confronti con il mondo intero. Ciò che più conta, comunque, è che quanto più le scelte nazionali saranno adottate in una condizione di “disordine mondiale”, tanto più le nostre istituzioni governanti, come è avvenuto proprio in questi ultimi anni, avranno la possibilità di appoggiarsi contemporaneamente su una pluralità di punti di riferimento, utilizzando di volta in volta la più favorevole. Ma quando sarà il tempo delle scelte, soprattutto dopo l’esito delle presidenziali nord-americane, lo scenario muterà inevitabilmente. E quel multilateralismo che adesso appare vantaggioso potrà tramutarsi in debolezza.
Il quarto aspetto da considerare è la debolezza dell’apparato giudiziario. Il contropotere dei giudici, che ha segnato, in un crescendo quasi irrefrenabile, la vita politica italiana dalla fine degli anni Sessanta in poi, nei tempi più recenti è stato protagonista di episodi assai discutibili. Oscure vicende hanno accresciuto la sfiducia dell’opinione pubblica nella giustizia. Nulla di meglio, potrebbe dirsi, per facilitare l’azione politica ad ogni livello, anche quando, in nome dell’emergenza sanitaria, si è giunti a derogare, con qualche disinvoltura, gli stessi principi costituzionali. Ma quando le acque si saranno calmate, la strategia giudiziaria potrà tornare a farsi sentire, anche tra le stesse forze politiche di maggioranza.
Da ultimo, ma non per ultimo, vi è la presenza del Capo dello Stato, che in Italia ormai da lungo tempo ha assunto la funzione di tutela e di vigilanza sul circuito dell’indirizzo politico, e non solo. I costituenti, può ben dirsi, avevano visto lontano. E così hanno finito per creare, forse inconsapevolmente, un sistema di governo in cui il ruolo presidenziale non si limita al freno e all’equilibrio, e può giungere a forme di ben più incisivo e determinante intervento. Dove l’omissione, a volte, vale ancor più dell’azione. Ciò ovviamente varrà sino a quando il Presidente terrà fermo il suo sostegno, non introducendo o non facilitando l’emersione di aspetti divisivi nella coalizione di maggioranza o nei confronti degli esponenti del Governo.
In ogni caso, qualsiasi sia il corso degli eventi, occorrerà sempre ribadire con energia il valore della nostra Costituzione e respingere le sirene di chi vorrà imporre la costituzione materiale, e cioè le istanze delle forze che si pretendono dominanti, all’interno e all’esterno della nostra collettività. Senza la Costituzione, la democrazia non resisterà. Solo nel rispetto della Costituzione, sarà rispettata la volontà dei cittadini.