Il Gran Premio di Copenaghen è nella fase di warm up: i motori del dibattito sui cambiamenti climatici si sono accesi a colpi di dichiarazioni e annunci di partecipazione (come quella di Obama) e sta iniziando il giro di prova per saggiare il percorso che dovrebbe portare al traguardo. Il traguardo, in questo caso, è un possibile – ma sempre più difficoltoso – accordo sulle politiche per fronteggiare i cambiamenti climatici, che vada oltre quanto era stato stabilito nel protocollo di Kyoto, che peraltro attende ancora di essere pienamente rispettato.
Uno dei protagonisti del dibattito che si sta avviando è Carlo Carraro, Ordinario di Economia e Politica dell’Ambiente e Rettore dell’Università di Venezia, ma anche uno dei cervelli della Fondazione Eni Enrico Mattei e del CMCC (Centro Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici), nonché Vice Presidente del Gruppo III e Membro del Bureau dell’IPCC, la celebre organizzazione internazionale incaricata dall’Onu di analizzare le ricerche sul clima e di formulare i possibili scenari per un futuro sostenibile.
Non le sembra che, nel dibattito sulle conseguenze dei cambiamenti climatici, si stiano sottovalutando le differenze regionali?
È scientificamente riconosciuto che l’effetto dei cambiamenti climatici non sarà omogeneo ma varierà profondamente da regione a regione. I paesi economicamente più poveri subiranno gli impatti più consistenti, a seguito della loro collocazione geografica, che li vede concentrati a latitudini con temperature medie più alte, e della loro minore capacità adattiva dovuta alla mancanza di risorse economiche. Inoltre, sono soprattutto i paesi in via di sviluppo a mostrare la più alta dipendenza dalle risorse naturali di base, come i beni agricoli spesso già scarsi, la cui produttività è ridotta dal peggioramento delle condizioni climatiche.
Perché allora non si parla con più insistenza della differenza fra regione e regione?
Quello che può far credere che le differenze regionali siano state prese in considerazione marginalmente è il fatto che durante le passate negoziazioni, così come avverrà nella prossima Conferenza delle Parti (COP) di Copenaghen, i paesi si presentano in gruppi. Questo avviene perché il loro potere di negoziazioni varia profondamente in base alla loro rilevanza politica e geografica e alle loro esperienze e competenze in materia. Al fine quindi di ridurre tali asimmetrie, i paesi sono stati uniti in “blocchi” sotto interessi comuni. Per esempio il gruppo G77/Cina tiene sotto di se 130 paesi con il medesimo obiettivo: i paesi industrializzati, data la loro responsabilità storica nelle emissioni di gas serra, si devono impegnare per primi in obiettivi di riduzione permettendo ai paesi in via di sviluppo di continuare il loro processo di crescita economica.
Nell’ultimo World Business Summit on Climate Change dell’estate scorsa i rappresentanti del mondo economico avevano parlato di un possibile peggioramento della situazione climatica mondiale e si erano dichiarati pronti a sostenere programmi di riduzione drastica e immediata delle emissioni di gas serra, per contenere l’aumento della temperatura entro i 2 °C. Ritiene necessaria, praticabile e vantaggiosa tale azione?
L’obiettivo dei 2 °C di aumento della temperatura terrestre rispetto all’età preindustriale costituisce il punto di riferimento delle analisi e dei documenti ufficiali governativi – tanto che a L’Aquila i leader delle maggiori economie mondiali si sono impegnati a mantenere la temperatura al di sotto di questo livello – e di ricerche scientifiche da parte di vari istituti di ricerca che trattano delle conseguenze, dei costi e dei benefici delle politiche di mitigazione dei cambiamenti climatici.
Secondo il Quarto rapporto dell’IPCC le emissioni dovrebbero essere ridotte del 50-85% entro il 2050 rispetto al 2000 affinché tale obiettivo venga raggiunto; inoltre le concentrazioni di gas serra si dovrebbe stabilizzare al di sotto di 450 ppm.
È un’impresa accessibile o “disperata”?
Considerando che le attuali concentrazioni di gas serra nell’atmosfera hanno ormai raggiunto i 430 ppm CO2-eq (circa 380 ppm CO2) l’obiettivo di 2 °C non sembra di facile attuazione, anzi, ha una buona probabilità di essere ottenuto solo attraverso uno sforzo di riduzione delle emissioni immediato, di notevole entità, globale e inevitabilmente costoso. Nello specifico, le emissioni di gas serra dovrebbero essere ridotte praticamente a zero sin dal 2030-2035 in tutti i paesi Oecd. Condizione altamente improbabile e forse nemmeno auspicabile per gli elevati costi che comporterebbe. Inoltre questo quadro si basa su ipotesi di immediatezza dell’azione e completa cooperazione nelle politiche climatiche internazionali; la storia e l’attuale situazione nelle negoziazioni sul clima ci pongono davanti ad un contesto diametralmente opposto. Inoltre, un ritardo nella partecipazione non comporterebbe solo l’impossibilità di raggiungere l’ambizioso obiettivo dei 2 °C ma anche un costo globale per il sistema economico significativamente più alto.
Lo sviluppo e l’assestamento delle tecnologie a bassa emissione richiede inevitabilmente l’incentivazione e il supporto pubblico? E per quanto tempo?
L’obiettivo di stabilizzazione dei gas serra richiede trasformazioni radicali nel nostro sistema economico e nel il nostro stile di vita. Il settore energetico può giocare un ruolo chiave nel raggiungimento degli obiettivi ma ha bisogno cambiamenti costosi che possono essere raggiunti solo attraverso cospicui investimenti nelle infrastrutture e nella ricerca e sviluppo da intraprendere nei prossimi decenni. Tale scenario richiede politiche pubbliche lungimiranti e ben definite al fine di fornire incentive economici adeguati e mobilizzare risorse finanziarie sufficienti. Guardando a questo settore, un livello di riferimento deve essere lo sforzo in ricerca degli anni successivi alle due crisi petrolifere degli anni settanta.
Quali sono allora le contromosse più urgenti?
È richiesto l’utilizzo su larga scala di una serie di tecnologie a basso contenuto di carbonio attualmente disponibili e lo sviluppo ed l’implementazione di quelle che si attende saranno commercializzate nei prossimi anni, come la cattura e lo stoccaggio della CO2 (CCS). In tale contesto l’incentivazione e il supporto pubblico risultano indispensabili. Sono necessari prima di tutto incentivi economici alla ricerca e sviluppo nel campo delle nuove tecnologie sulle fonti energetiche alternative e su quelle di risparmio ed efficienza energetica.
In secondo luogo, a livello di regolamentazione sarebbe utile istituire un regime di autorizzazione e controlli legati alla diffusione delle energie rinnovabili e alle misure di efficienza energetica omogeneo, in modo da incentivare lo sviluppo di nuovi settori di attività economica che portano con sé occupazione e iniziativa imprenditoriale.
Infine, si potrebbe considerare l’istituzione di una carbon tax sulle emissioni o sull’uso di combustibili fossili che da una parte rappresenterebbe un incentivo certo e stabile ad investire in nuove tecnologie e in ricerca e sviluppo e dall’altro genererebbe un flusso certo di proventi fiscali che potrebbe essere ridistribuito per stimolare gli investimenti stessi.
Le azioni di adattamento sono realistiche? Come valutarne i costi? C’è una diffusa intenzione di perseguirle?
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Le azioni di adattamento sono necessarie, perché alcuni cambiamenti climatici sono ormai inevitabili: una tonnellata di CO2 resta in atmosfera per un periodo che va dai 50 ai 200 anni; se le emissioni raggiungono il picco tra 20 anni, le concentrazioni si stabilizzano in un lasso di tempo tra 100 e 300 anni, la temperatura dopo alcuni secoli, l’aumento del livello del mare in un periodo compreso tra secoli e millenni. In questo contesto appare quindi essenziale sviluppare strategie di adattamento agli effetti del cambiamento del clima che avremo davanti nei prossimi decenni.
Misure di adattamento vanno poste in essere in particolare nei paesi in via di sviluppo, di gran lunga i più vulnerabili, in modo di neutralizzare gran parte degli impatti negativi dei cambiamenti climatici. A tal fine, i paesi sviluppati dovrebbero mettere a disposizione di quelli in via di sviluppo risorse finanziare e tecnologiche che rendano possibile l’attuazione di azioni di adattamento. Aiutando così, per lo stretto legame tra adattamento e crescita economica, tali paesi a svilupparsi.
Non le sembra particolarmente complicato?
La valutazione economica delle azioni di adattamento è particolarmente complessa poiché richiede l’utilizzo di tecniche diverse, in quanto non tutti gli aspetti coinvolgono beni per cui esiste un mercato ed un valore monetario corrispondente; ad esempio risulterebbe difficile valutare il costo della perdita di biodiversità, del patrimonio storico/artistico/architettonico o di un paesaggio. Anche per i beni per cui esiste invece un mercato può non essere semplice quantificare tutti i danni indiretti e i costi per evitarli o ridurli. La valutazione degli effetti economici varia anche a seconda delle caratteristiche delle regioni considerate. Infatti una diversa struttura fisica, economica, politica o sociale influenza la capacità e la velocità di risposta alle pressioni dettate dai cambiamenti climatici. Inoltre, la naturale capacità di adattamento, che può contribuire a rallentare la percezione degli effetti di questi cambiamenti solitamente di medio-lungo termine.
L’adattamento, facendo parte degli elementi “chiave” del Bali Action Plan, è stato tra i temi più discussi nell’agenda delle negoziazioni pre-Cop15 e sarà tra i temi principali a Copenhagen come un aspetto che le negoziazioni devono risolvere urgentemente. Infatti, malgrado tutte le parti siano d’accordo sulla necessità di una struttura per aiutare i paesi più vulnerabili a sviluppare strategie di adattamento attraverso il trasferimento di risorse finanziare e tecnologiche, non esiste ancora un’azione coordinata su questo tema.
Ritiene che l’Europa possa raggiungere gli obiettivi 20-20-20?
La posizione dell’Unione Europea rispetto agli altri paesi industrializzati sul tema delle politiche ambientali è sicuramente da leader. Con il pacchetto legislativo 20-20-20 prevedere infatti di ridurre di almeno il 20% le emissioni di gas serra rispetto al 1990, portare al 20% la quota di rinnovabili nel consumo energetico entro il 2020, il 20% di energia risparmiata grazie a una maggiore efficienza energetica.
Per quanto riguarda questi tre obiettivi, il primo sembra possa essere raggiunto senza grande difficoltà prendendo in considerazione sia la crisi economica che ha colpito le attività industriali ed energetiche riducendo le emissioni sia il fatto che, rispetto a quanto a recentemente pubblicato dalla Commissione Europea, l’UE è in linea per rispettare in pieno gli obblighi del protocollo di Kyoto.
Per quanto riguarda gli altri due obiettivi la fissazione di target a livello europeo garantisce una certa stabilità alle politiche nazionali in queste materie ma dall’altro lato è necessario che alla base gli Stati membri adottino obiettivi obbligatori e piani di azione adeguati in merito.
Quali sono, se ci sono, i problemi e le difficoltà nell’utilizzo delle fonti rinnovabili?
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Esistono delle difficoltà intrinseche all’uso di energia proveniente da fonti rinnovabili, prima di tutto il loro costo è più elevato in termini di investimenti avvantaggiando così i combustibili fossili; secondo ci sono problemi amministrativi legati alle procedure di installazione e al carattere decentrato della maggior parte delle applicazioni delle energie rinnovabili. È quindi essenziale eliminare questi ostacoli allo sviluppo delle energie rinnovabili. Inoltre, dovrebbero essere promosse misure di sostegno, di incentivo e di stimolo a favore di queste fonti energetiche – ad esempio i biocarburanti – il ricorso agli appalti pubblici in particolare nel settore dei trasporti nonché permettere una migliore integrazione delle fonti energetiche rinnovabili nella rete elettrica. Infine, bisognerà investire in strumenti orientati verso il sostegno alla ricerca, alla diffusione delle tecnologie a basso o zero contenuto di carbonio.
Un possibile nulla di fatto della COP 15 potrà incidere negativamente anche sui programmi ambientali già varati in sede europea?
L’Unione Europea con lo stesso pacchetto 20-20-20 ha già preso in considerazione la possibilità che non venga siglato alcun accordo internazionale sul clima alla COP 15 tanto che pur auspicando che i paesi sviluppati si impegnino a ridurre le emissione collettive di circa il 30% rispetto ai livello del 1990 entro il 2020 ha fissato degli obiettivi interni di riduzione delle emissioni per il medesimo periodo.
Quindi a prescindere da quale sarà il risultato della COP15 l’UE porterà avanti la sua posizione di leader nel campo del clima, posizione che ha stimolato altre azioni nazionali di riduzione delle emissioni (Australia, Nuova Zelanda, Giappone, azioni regionali negli Stati Uniti ecc.) e la nascita di un mercato del carbonio che sta prendendo sempre più valore sia in termini monetari che di volumi di scambio.
(Mario Gargantni)