Nella scienza dei nostri giorni la dimensione visiva non è un accessorio o un elemento relativo solo alla comunicazione. Certo, la comunicazione scientifica fa ampio uso di immagini: sia al suo interno che verso l’esterno. Nei vari meeting e seminari tra gruppi di ricercatori è difficile trovare un argomento che possa fare a meno di schemi grafici, diagrammi, immagini più o meno sofisticate, simulazioni al computer. Ma anche nella comunicazione ad extra, cioè verso il vasto pubblico, non manca mai un buon proiettore per la presentazione di slide dall’ormai insostituibile Power Point.
C’è però un aspetto più profondo in questo ricorso ai supporti visuali nella scienza; e lo mostra – nel senso letterale del termine – il celebre matematico inglese John Barrow in un’opera come Le immagini della scienza. Cinquemila anni di scoperte: una storia visiva che è riduttivo definire “libro illustrato”. Barrow non è nuovo a incursioni ai confini tra le diverse scienze (che peraltro padroneggia abilmente, dalla cosmologia alla biologia) e altre aree del sapere, come le arti e la letteratura: ha avuto un notevole successo, qualche anno fa il suo Infinities, una performance teatrale che coinvolge gli spettatori lungo un percorso scandito da paradossi, storie e riflessioni sull’infinito.
Ora continua a esplorare nuove forme di comunicazione con questa che si può considerare come una “mostra stampata”, dove l’asse portante sono le immagini (non solo fotografie) e i testi fungono da corredo – efficace, puntuale e aggiornato – ma non fanno la parte del leone come nei soliti libri.
Che quelli visivi non siano accessori nell’attività scientifica, ma svolgano un importante ruolo conoscitivo è una delle convinzioni di Barrow, sostenuta anche da esempi eclatanti e noti anche al di fuori della cerchia degli specialisti. Basti pensare alle splendide fotografie che quotidianamente il Telescopio Spaziale Hubble invia a Terra e che, subito disponibili tramite Internet, offrono a tutti la possibilità di osservare da vicino fenomeni spettacolari come la nascita di una stella o squarci di universo densi di galassie formatesi miliardi di anni fa.
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Ma anche prima di Hubble la fotografia astronomica ha consentito significativi avanzamenti e scoperte sconvolgenti. Celebre il caso delle galassie peculiari, riprese da Halton Arp col telescopio di Monte Palomar e raccolte in un Atlante di 591 oggetti: la loro forma irregolare ha portato alla scoperta della frequenza e dell’importanza delle collisioni tra galassie nel corso dell’evoluzione cosmica. «L’inconsueto – afferma Barrow – è invariabilmente un indizio di ciò che c’è di speciale nel consueto […]. Ancora una volta la peculiarità ha suggerito le intuizioni fondamentali per comprendere la normalità. E ciò è stato possibile soltanto grazie alle immagini».
Passando dalla storia cosmica a quella dell’uomo, come non riconoscere il valore delle foto di impronte dei nostri progenitori impresse su uno strato di ceneri vulcaniche solidificate in una zona della Tanzania denominata Laetoli? Un documento, oltre che suggestivo e di grande spessore simbolico, ricco di informazioni e fonte di dati utili per ricostruire le tappe del lento e drammatico cammino della ominizzazione.
Anche l’ambito delle discipline più astratte trae grande vantaggio dalla rappresentazione visiva. C’è tutto l’affascinante mondo della topologia; immortalato emblematicamente dal nastro di Moebius, quella striscia ormai riprodotta in numerose varianti e dove si può paradossalmente passare da una faccia all’altra senza attraversare i bordi.
I grandi progressi nelle scienze dell’ultrapiccolo sono stati resi possibili dall’invenzione di strumenti come il microscopio a scansione a effetto tunnel. Con esso da circa quindici anni è possibile produrre immagini del cosiddetto “recinto quantistico”, dove qualche decina di atomi è disposta su un cerchio del diametro di 10-20 nanometri, ovvero un decimillesimo del diametro di un capello umano: «Il recinto quantistico non è soltanto il volto attraente della meccanica quantistica: è il volto delle cose a venire».
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Tra le tante suggestioni destate dalla rassegna proposta da Barrow, ci piace evidenziare quella legata a un accostamento tra astronomia e pittura. C’è un oggetto astronomico nella costellazione boreale dei Cani da Caccia, classificato nel catalogo Messier come M 51, che comprende due galassie: la più grande è una classica galassia a spirale, scoperta dallo stesso Charles Messier nel 1773 e nota come Galassia Vortice; l’altra è una galassia satellite agganciata alla prima tramite un braccio di gas e polveri stellari e si deve accontentare di essere identificata da una sigla: NGC 5195. Ebbene, le moderne tecniche di fotografia nell’infrarosso hanno rivelato un volto nuovo della strana coppia, mettendo in risalto le nubi di gas e polvere da cui si formano le stelle e consentendo una miglior spiegazione del meccanismo di rotazione dei bracci a spirale. A questo punto Barrow ripropone la celebre Notte stellata dipinta da Van Gogh nel 1889 (quella col cipresso in primo piano) e fa notare i vortici di luce che si agganciano come le due galassie in M 51: «non è un’immagine scientifica; non ha alcun ruolo nello studio delle galassie; ma nell’ultimo secolo ha rappresentato una sorta di icona impressionistica delle stelle, imprimendosi nella mente degli scienziati e degli amanti dell’arte come un punto di contatto tra l’arte e l’universo».