Avevamo già incontrato Yves Coppens 26 anni fa, al Meeting di Rimini, nel suo primo intervento sulle origini dell’uomo. Era stato un incontro di quelli che lasciano il segno: per la vivacità umana e la sensibilità nel rapporto e per il fascino dei racconti e delle argomentazioni che ci riportavano indietro nel tempo, agli inizi dello straordinario e singolare cammino dell’uomo che Coppens stava pazientemente ricostruendo sulle base di numerose campagne di scavi, di osservazioni, di analisi sperimentali.
Lo abbiamo ritrovato al Meeting di Rimini a riflettere sull’esperienza della scoperta, come ha fatto nella tavola rotonda di mercoledì 26 agosto, e successivamente al simposio Discovery as an Event. Understanding the Dynamics of Human Advancement in Science and Culture, svoltosi dal 28 al 30 a San Marino sulla stessa tematica e organizzato dalla Fondazione Templeton, dalla Associazione Euresis e dall’Università di San Marino. Il paleoantropologo francese è particolarmente disponibile a questa riflessione sull’esperienza e sentendolo raccontare le sue scoperte si nota come per lui parlarne sia un po’ come riviverle. Non per nulla il libro nel quale ha raccontato a suo figlio le origini dell’uomo si è guadagnato lo scorso anno il prestigioso premio Andersen per la divulgazione.
Siamo inizialmente incuriositi da ciò che è accaduto nella ricerca paleontologica in questo quarto di secolo; e da lì parte la nostra conversazione.
Quali sono gli avanzamenti più interessanti negli ultimi anni nello studio delle origini dell’uomo?
Il primo è l’individuazione certa del luogo dove è iniziata la storia dell’uomo: tutti i pre-ominidi, senza eccezione, vengono dall’Africa tropicale; anni fa pensavo che fosse solo la zona orientale ora so che è tutta la fascia tropicale africana, dall’Etiopia, al Ciad, al Kenia, alla Tanzania, al SudAfrica.
Il secondo risultato riguarda la capacità di datazione: oggi abbiamo buoni metodi per fare datazioni assolute e così possiamo dire che i pre ominidi, cioè i primi esseri del ramo degli ominidi, sono apparsi circa 10 milioni di anni fa.
La terza acquisizione: i molti scheletri che abbiamo ricostruito e esaminato ci permettono di dire che molti di questi pre ominidi avevano acquistato tre capacità fondamentali per la sopravvivenza nella savana: quella di stare in piedi, in posizione eretta, di correre e di arrampicarsi.
La quarta, a mio avviso, è il fatto che tutte queste trasformazioni, queste caratteristiche che l’uomo andava acquisendo, erano strettamente collegate alle condizioni ambientali e alla loro evoluzione. Ci sono stati tre passaggi principali in questo senso, in tre periodi precisi corrispondenti ad altrettante aperture del paesaggio dove vivevano gli ominidi: la prima apertura data dal passaggio è avvenuta verso i 10 milioni di anni fa con il raggiungimento della posizione eretta; la seconda verso i 4 milioni di anni fa con la comparsa di quelli che poi sarebbero diventati australopitechi, come Lucy; la terza verso i tre milioni di anni fa quando dai preominidi si è passati all’homo. Tutte le conquiste menzionate si possono pensare come frutto della evoluzione naturale; dalla scimmia all’homo. Voglio però sottolineare che quando si passa all’homo c’è una situazione tutta speciale: c’è un processo di adattamento dove cambiano la struttura della dentizione e le abitudini alimentari, e dove soprattutto si registra un aumento delle dimensioni del cervello. È questo che fa la differenza: un cervello più grande va di pari passo col sorgere della coscienza, con lo sviluppo del senso estetico, con la capacità tecnologica, con la religiosità. Se è vero che tutta questa evoluzione avviene secondo una linea di continuità, secondo una crescita quantitativa, è anche vero che a un certo punto questo aumento determina un salto qualitativo: in proposito mi piace molto citare l’espressione inglese “more is different”, cioè il “il più” diventa il “diverso”. L’uomo è discendente dal regno animale ma è al tempo stesso espressione di qualcos’altro.
Come è possibile risalire a conoscere come viveva l’uomo preistorico, quali erano le sue condizioni di vita?
Dai numerosi scavi che ho personalmente eseguito, a vari livelli, posso dire che i primi uomini vivevano in gruppo, avevano una vita sociale, costruivano insediamenti e delimitavano le zone per l’attività di caccia. Ci sono prove che indicano come iniziassero a condividere i frutti della cacciagione, cosa che le scimmie non fanno, e che sviluppassero una particolare cura dell’alimentazione, non limitandosi a una nutrizione istintiva e differenziando i cibi; nel caso delle carni, che è più facile da documentare tramite il ritrovamento delle carcasse degli animali, non si rivolgevano solo a quelli di grande taglia ma si cibavano anche di una varietà di esemplari.
Lei ha scritto un saggio sulla storia dell’uomo e i cambiamenti climatici: su quali elementi si è basato e quali conclusioni ha raggiunto?
Dalle mie ricerche posso affermare che l’emergere dell’uomo è fortemente connesso ai cambiamenti climatici. Nelle indagini che ho svolto dopo il ritrovamento di Lucy, nella zona del fiume Omo, ai confini del Kenia, ho potuto rilevare molti indizi delle trasformazioni del clima; un clima che, tre milioni di anni fa, stava passando da molto umido a secco. Questo mutamento induceva cambiamenti negli animali, che dovevano adattare alla nuova situazione il loro modo di muoversi, di correre, di cibarsi. Un cambiamento significativo e misurabile riguarda le piante; riusciamo infatti a calcolare un indicatore del rapporto tra piante e arbusti: ebbene, tra i tre e i due milioni di anni fa tale rapporto crolla drasticamente e ciò avviene in concomitanza con lo sviluppo delle componenti cerebrali degli ominidi, quindi con l’apparizione dell’uomo che a me sembra quindi preparata dal contesto ambientale, quasi fosse una risposta alla nuova situazione.
Anche un’altra fase di mutamento climatico, quella avvenuta attorno ai diecimila anni fa, coincide con una trasformazione culturale e comportamentale dell’uomo: si passa da un’economia basata sull’attività di caccia ad una dove l’uomo inizia a coltivare la terra, quindi a produrre, in qualche modo a progettare.
Quando inizia nella storia umana l’esperienza della conoscenza? Possiamo dire qualcosa su come ragionava l’uomo preistorico, su cosa pensava, su ciò in cui credeva?
L’analisi delle pietre lavorate ci consente di risalire al pensiero dell’uomo preistorico, alla sua esperienza di conoscenza. In molte di queste pietre si nota una procedimento non casuale, che indica un’intenzionalità e un desiderio di ottenere un risultato il più possibile utile e vantaggio per gli scopi prefissati.
Il ritrovamento di pietre lasciate secondo una determinata disposizione, ci segnalano anche un modo di organizzare gli spazi e prendere possesso del territorio; possiamo quindi risalire a cosa pensava a cosa immaginava. Sappiamo che due milioni di anni fa era in grado di cacciare e che questa attività era continuamente perfezionata. È impressionante trovare i resti di diversi teschi di animali con i segni della lancia che ha perforato la fronte sempre nello stesso punto, indice quindi di un’azione studiata ed eseguita secondo procedure elaborate e tramandate. Quindi la conoscenza inizia subito: non appena si può parlare di Homo, si deve parlare di un pensiero, della capacità di guidare l’azione in base a un’idea, di elaborare una strategia per le attività più complesse. Ciò si riferisce al pensiero operativo. Per quanto riguarda il livello più riflessivo, potremmo dire filosofico e religioso, credo che anch’esso sia connaturato con la nuova condizione biologica dell’uomo. La postazione eretta e la possibilità di allargare lo sguardo verso l’orizzonte e verso il cielo, verso le stelle, ha attivato un’esperienza nuova e ha fatto scattare quella meraviglia che è la molla della conoscenza.
Qualche anno fa, collaborando ala lavorazione di un film sull’uomo preistorico, sono rimasto colpito dall’osservazione del regista che mi ha fatto riflettere sulla grande sensazione provata dai primi uomini nell’avvertire la presenza gli uni degli altri e nel sentirsi parlare. Per tanto tempo nella savana si erano sentiti solo i rumori prodotti dal vento o dai movimenti degli animali o i versi delle giraffe e dei rinoceronti: ora riusciamo appena a intuire quale grande effetto possa aver prodotto ascoltare il battito di una pietra lavorata ritmicamente e più ancora il suono di una voce umana. Era un’assoluta novità nel repertorio dei suoni naturali, un suono incomparabile con qualunque altro: un vero e proprio avvenimento.
(A cura di Mario Gargantini)