In Italia se ne parla solo in occasione di qualche intervista al premio Nobel Carlo Rubbia – come è accaduto ancora lunedì – ma il tema del torio come possibile alternativa all’uranio per le centrali nucleari del futuro non è così alieno nel dibattito internazionale. Che ormai è più di un dibattito. È di due mesi fa l’annuncio della Accademia Cinese delle Scienze (CAS) dell’avvio di un ampio programma di ricerca e sviluppo sulla tecnologia MSR (Molten-Salt Reactor) per reattori al torio.
Ancora più attiva in questa direzione è l’India, che nel 2009 ha ribadito la scelta strategica di ricorrere al torio per i progetti di reattori autofertilizzanti; ma si tratta di una strategia elaborata già negli anni Cinquanta dal fisico Homi Bhabha. Nel centro di ricerche atomiche BARC di Mumbai, che porta il suo nome, studi e progetti sull’uso del torio procedono speditamente; come pure presso l’IGCAR (Indira Gandhi Centre for Atomic Research) a Kalpakkam, dove si stanno esplorando tutte le possibilità di impiego di questo materiale come combustibile nucleare. C’è da dire che l’India ha riserve di torio stimate in 319.000 tonnellate, corrispondenti a circa il 12% del totale mondiale: in questa classifica è preceduta solo da Australia (19%), Usa (15%) e Turchia (13%).
Gli Stati Uniti non si sono ancora mossi ufficialmente ma stanno crescendo le iniziative di realtà non-profit come la Thorium Energy Alliance, che terrà il suo terzo congresso annuale il prossimo maggio a Washington; o la IThEO (International Thorium Energy Organization), che lo scorso anno ha applaudito all’annuncio di Bill Gates di investire nello sviluppo della tecnologia Traveling-Wave Reactor che, secondo i tecnici di IThEO potrebbe essere utilizzata anche per i futuri reattori al torio.
In Europa c’è il gruppo norvegese Aker Solutions che ha acquistato il brevetto di Rubbia per un reattore sub-critico innescato da un acceleratore e sta lavorando a un progetto per un insediamento in UK; si pensa alla possibilità di arrivare a una rete di reattori di media taglia, da 600 MW e dal costo di circa due miliardi di sterline ciascuno. Tuttavia gli inglesi sono piuttosto freddi verso questa ipotesi.
Ma cos’è il torio e perché è così interessante?
È un metallo di colore argenteo, debolmente radioattivo, che si può trovare in diversi minerali come la torite (uranio-torio silicati) o la monazite, ed è molto più abbondante dell’uranio e molto più produttivo come fonte energetica. Come curiosità, il suo nome deriva dal dio norvegese del tuono, Thor, che ha dato appunto la radice al termine thunder e anche al giorno di giovedì (Thursday).
Il torio si trova in natura quasi al 100% nella forma del suo isotopo Th-232 che non è un isotopo fissile, a differenza dell’uranio 235, ma è fertile come l’uranio238; fertile significa che può trasformarsi in fissile e infatti il torio, assorbendo un neutrone, diventa U-233 fissile. La reazione di fertilizzazione è detta “breeding reaction” ed è quella alla base del tipo di reattori detti autofertilizzanti, cioè che producono più materiale fissile di quanto ne consumino, attuando una sorta di “riciclo” del combustibile.
Ciò può avvenire sia attraverso l’uranio-238 che poi diventa plutonio 239 fissile; sia mediante il torio-232 con la reazione sopra indicata. La differenza tra i due processi è che il primo richiede i neutroni veloci (si parlerà di FBR, Fast Breeder Reactor) mentre col torio la autofertilizzazione può essere ottenuto anche in reattori a neutroni più lenti (cosiddetti termici).
I vantaggi del dio del tuono rispetto ai breeder studiati finora sono molteplici: oltre alla sua relativa abbondanza in natura, ci sono diversi aspetti tecnici legati al miglioramento della reazione e alle rese. Ma soprattutto i vantaggi sono sul fronte della sicurezza e dei rischi. Anzitutto si evita lo scomodo plutonio, o meglio lo si produce in quantitativi molto inferiori, riducendo così la disponibilità di materiale utilizzabile per la costruzione di ordigni nucleari.
Quanto alle scorie e allo smaltimento dei materiali radioattivi, la possibilità di ricorrere a neutroni termici porta ulteriori vantaggi. Quando il combustibile ha terminato i suoi cicli di reazione si trova in condizioni di radioattività molto diverse da quelle delle scorie dei futuri reattori ad uranio di terza generazione e anche dei FBR. Bruciando infatti uranio nei reattori termici senza riciclo del plutonio (il cosiddetto ciclo once through), quest’ultimo va nelle scorie e, avendo un tempo di dimezzamento di 25.000 anni, richiede il confinamento per un milione o un po’ meno di anni. Separando invece il plutonio, rimangono i frammenti di fissione i cui tempi di dimezzamento sono al più di decenni, richiedendo quindi il confinamento “solo” per secoli. Nel caso del torio, con il processo sopra indicato di separazione dell’uranio-233, forse si potrebbero avere tempi ancora inferiori.
Quali che siano le stime più attendibili, resta la prospettiva di una soluzione promettente, alla quale non sarà inutile dedicare più attenzione