Come molti appassionati di scienza ricorderanno, lo Stanford Linear Accelerator (SLAC) è un potente acceleratore lineare di particelle della lunghezza di circa tre chilometri, situato presso la Stanford University in California. Per più di cinquant’anni questo importante strumento di ricerca è stato utilizzato per accelerare elettroni a velocità prossime a quella della luce allo scopo di condurre esperimenti di fisica delle alte energie. Ora che nuovi e più potenti acceleratori di particelle sono entrati in funzione, lo SLAC ha conosciuto una seconda giovinezza mettendo a disposizione le proprie potenzialità per pilotare quello che può definirsi il più potente laser a elettroni liberi attualmente esistente: una sorgente coerente di radiazione elettromagnetica in grado di generare impulsi di raggi X di una brillanza senza precedenti. Questo straordinario laser, denominato LCLS (Linac Coherent Light Source), può, infatti, produrre impulsi di raggi X un miliardo di volte più intensi di quelli generati da qualunque altra sorgente basata sullo stesso principio di funzionamento.
È di questi giorni la notizia che un gruppo di ricercatori, capeggiati da Daniel Rolles del “Center for Free-Electron Laser Science” di Amburgo (Germania), sfruttando un singolo impulso di raggi X prodotto da LCLS, è riuscito nell’eccezionale impresa di strappare ben 36 elettroni da un atomo di Xeno (che di elettroni ne possiede 54), provocando in questo modo uno stato di ionizzazione di questo atomo mai raggiunto fino ad ora. Per apprezzare l’importanza di questo risultato occorre ricordare che, secondo quanto previsto dalla teoria, il numero massimo di elettroni che è possibile rimuovere con raggi X di energia pari a quella utilizzata nell’esperimento, risulta essere decisamente inferiore (circa 24).
Per meglio comprendere cosa accade quando un fascio di fotoni investe un atomo (i raggi X sono, infatti, fotoni di elevata energia), è opportuno ricordare che all’interno degli atomi gli elettroni sono disposti su gusci sferici (shell) che circondano il nucleo centrale. Occorre, inoltre, ricordare che l’energia necessaria per rimuovere gli elettroni dal proprio guscio risulta essere via via crescente per elettroni appartenenti a gusci sempre più interni.
Quando un fotone X generato da LCLS (la cui energia è circa mille volte più elevata di quella di un fotone della luce visibile) colpisce un elettrone dell’atomo di Xeno, gli cede la propria energia consentendo a quest’ultimo di staccarsi dal proprio guscio e, se l’energia è sufficiente, di abbandonare l’atomo. L’aspetto cruciale di questo processo sta nel fatto che l’energia dei fotoni generati da LCLS è, in teoria, sufficiente a rimuovere dall’atomo di Xeno solo agli elettroni dei gusci più esterni (circa 24 in tutto), i rimanenti elettroni dovrebbero essere così strettamente legati all’atomo da non poter essere rimossi.
Com’è possibile, allora, spiegare il risultato ottenuto dai ricercatori di Stanford? La causa di questa “impossibile” ionizzazione va ricercata nella presenza di una risonanza nel processo di assorbimento dei fotoni. In pratica, alla particolare energia dei raggi X usati nell’esperimento (1,5 keV), l’atomo di Xeno assorbe molti più fotoni di quanto accade ad altre energie (anche superiori a 1,5 keV). Quando questo avviene, alcuni elettroni vengono immediatamente espulsi dall’atomo, mentre altri (quelli più interni) interagendo con i fotoni X possono acquistare una quantità di energia sufficiente per portarsi in un guscio più esterno, rimanendo tuttavia ancora legati all’atomo.
Questi ultimi però, dopo un tempo più o meno lungo – ma in genere molto breve – ritornano nello stato iniziale, cedendo (sottoforma di fotoni) l’energia inizialmente assorbita. Se questa energia non viene dispersa, può essere riassorbita da altri elettroni eccitati che così riescono a recuperare l’extra energia necessaria per saltare fuori dall’atomo. In questo modo, anche elettroni fortemente legati, che in teoria non potrebbero abbandonare l’atomo, riescono ad acquistare la propria libertà, provocando così la ionizzazione record osservata dal team di Rolles.
Questo risultato sperimentale, oltre che estremamente interessante da un punto di vista puramente teorico, presenta anche importanti risvolti pratici. Se da un lato, la ricerca ha fornito la ricetta per massimizzare il numero di elettroni persi dal campione in esame – e questo può tornare utile quando si vogliono ottenere plasmi molto carichi – dall’altro ha anche indirettamente individuato il modo per evitare che questo accada. Evitando di raggiungere l’energia di risonanza si possono, infatti, analizzare campioni biologici che sarebbero irrimediabilmente danneggiati da stati di ionizzazione troppo elevati.