Come previsto dalla Teoria Speciale della Relatività di Einstein (e confermato anche recentemente dal discusso esperimento sul tempo di volo dei neutrini, realizzato presso i Laboratori INFN del Gran Sasso), la velocità della luce nel vuoto rappresenta un limite invalicabile. Tuttavia, nonostante nessuna informazione possa viaggiare più velocemente della luce, è stata individuata una sorta di scappatoia che, in alcune particolari situazioni, permette (lecitamente) di superare questo limite. È quanto si può verificare, ad esempio, nella propagazione di impulsi luminosi molto corti.
Come si sa, un impulso luminoso non è altro che un lampo di luce e l’andamento della sua intensità in ogni istante ricorda vagamente il profilo di una campana: parte da zero, arriva gradualmente a un massimo per poi tornare nuovamente a zero. Ebbene, quando la luce propaga sottoforma di impulsi, la Teoria della Relatività prescrive che il fronte dell’impulso (la sua parte più avanzata) non possa superare la velocità della luce nel vuoto. Sappiamo, tuttavia, che il profilo dell’impulso può subire modifiche durante la fase di propagazione e diventare asimmetrico; la sommità della sua gobba (il valore di picco dell’intensità), ad esempio, può essere fatta scorrere avanti o indietro rispetto alla posizione originale consentendole così di arrivare in anticipo o in ritardo rispetto al previsto.
Ovviamente, nel caso in cui arrivi in anticipo, la sua velocità sarà stata superiore a quella del fronte dell’impulso e quindi, in definitiva, superiore a quella della luce. Diventa così possibile generare impulsi “superluminali” che non violano la Relatività. In questi ultimi anni alcuni laboratori sono riusciti ad ottenere impulsi superluminali amplificando il fronte degli impulsi e attenuandone nel contempo la coda (in modo da spostare la posizione del picco in avanti). Questo modo di procedere si è dimostrato tuttavia poco soddisfacente: gli impulsi così ottenuti sono risultati, infatti, piuttosto rumorosi e con un aumento della velocità apparente abbastanza modesto.
Recentemente, un gruppo di ricercatori del National Institute of Standards and Technology (NIST) negli Stati Uniti ha messo a punto un nuovo metodo per realizzare impulsi superluminali decisamente superiori a quelli ottenuti in precedenza, utilizzando una tecnica dell’ottica non-lineare denominata “Four wave mixing” (non esiste una traduzione italiana dell’espressione, che significa pressappoco: miscelazione di quattro onde). Si tratta di una tecnica nota, basata sul fatto che inviando due onde luminose di diversa frequenza in alcuni materiali non-lineari (come ad esempio cristalli o fibre ottiche) queste interagiscono col mezzo in cui propagano generando due nuove onde la cui frequenza dipende (secondo regole ben definite) da quella delle onde di partenza.
Nell’esperimento realizzato al NIST i ricercatori hanno inviato all’interno di una cella riscaldata contenente un vapore di atomi di rubidio, un treno di impulsi laser – detti impulsi di “seme” –. della durata ciascuno di 200 nanosecondi (miliardesimi di secondo). Nella stessa cella hanno inviato anche un secondo fascio laser – denominato fascio di “pompa” – avente una differente frequenza. Il vapore (che funge da mezzo non-lineare) amplifica gli impulsi di seme e sposta il loro picco in avanti, rendendoli in questo modo superluminali. Nello stesso tempo i fotoni del fascio di pompa interagiscono anch’essi con il vapore generando un secondo impulso – detto impulso “coniugato” – il cui picco può viaggiare più o meno velocemente della luce in relazione alle impostazioni del laser di pompa. Il risultato finale è stato quello di ottenere impulsi luminosi il cui picco riesce ad anticipare di 50 nanosecondi la luce che propaga nel vuoto.
Una prima applicazione di questa tecnica, che il gruppo di ricercatori americano intende esplorare, riguarda l’utilizzo degli impulsi veloci nell’ambito della cosiddetta “quantum information”, la disciplina che sfrutta l’informazione contenuta negli stati di un sistema quantistico (ad esempio per la realizzazione di computer quantistici). In particolare, il sistema sviluppato al NIST dovrebbe consentire la misura della “discordanza quantica”, un parametro che definisce la quantità di informazione trasportata da due sistemi correlati; nello specifico gli impulsi di seme e quello correlato.