La rivoluzione nella nostra comprensione dei pianeti di altre stelle è relativamente recente: nel 1995 Michel Mayor e Didier Queloz hanno scoperto 51 Pegasi b, un pianeta della stella 51 Pegasi nella costellazione di Pegaso. Essa è relativamente vicina a noi, cioè a 47,9 anni luce; dobbiamo avere presente che la nostra comunità di stelle, la Via Lattea, ha un diametro di circa venti mila volte la distanza Sole – 51 Pegasi. Il pianeta Pegasi b non è molto simile alla Terra; è piuttosto come Giove, ma è molto più vicino alla stella di quanto il nostro pianeta gigante lo è al Sole. Ricordo chiaramente la visita di Michel al Centro di Fisica Abdus Salam, poco meno di un anno dopo la scoperta. Il motivo del mio invito era per la sua partecipazione a una serie di conferenze; l’entusiasmo di tutti noi per la novità di questa scoperta storica era straordinario. Tutto è cambiato con l’avvio della Missione Kepler della Nasa, col lancio del 7 marzo 2009.
Nel periodo della sua attività affidabile, finito poco tempo fa, il suo contributo era di aggiungere alle scoperte di Mayor, dei colleghi americani Geoff Marcy e Robert Butler e di altri di diversa nazionalità, ben 2.740 candidati in orbita attorno a 2.036 stelle; fra questi, 351 pianeti sono di dimensione simile alla Terra, 816 di dimensione maggiore (le superterre), 1.290 nettuniani, 202 gioviani e 81 più grandi di Giove. Purtroppo poco tempo fa, Kepler ha sofferto dei guasti tecnici riguardanti un giroscopio del sistema di puntamento che permette all’obiettivo di fissare un punto determinato della volta celeste. Questa proprietà dello strumento è fondamentale per renderlo completamente affidabile. L’inaspettato evento ci lascia due possibilità. Per gli astronomi ci sono vere alternative: ad esempio Conny Aerts dell’Università di Lovanio è dell’opinione che il Kepler ammalato sia una benedizione nascosta. Lo strumento infatti potrebbe essere ancora superiore, in un certo senso, a qualsiasi telescopio sulla superficie di nostro pianeta. Il suo argomento è che per certi problemi stellari c’è bisogno di periodi d’osservazioni abbastanza lunghi e ininterrotti, impossibili per la rotazione della Terra.
In quei problemi il Kepler “ammalato” è lo strumento perfetto. D’altro canto noi astrobiologi siamo in una posizione intermedia nella valutazione dei pianeti che girano intorno ad altre stelle, grazie all’elenco già citato della Nasa di quasi tremila stelle circondate da pianeti. Molti di essi sono veri sistemi solari, non sempre identici al nostro. Questa osservazione sarebbe un vero regalo per l’astrobiologia, la scienza che si occupa dell’origine e evoluzione della vita nell’universo fino, forse, allo sviluppo dell’intelligenza, alla sua distribuzione e anche al suo destino. A questo punto dobbiamo rammentare le osservazioni, di più di mezzo secolo fa, del pioniere Frank Drake, anche lui nostro ospite a Trieste in più occasioni. Frank ha iniziato la ricerca di altre civiltà fuori del nostro sistema solare, quasi alla cieca, ossia ascoltando onde radio catturate con dei potenti radiotelescopi, come quello di Medicina, presso Bologna: qui l’antenna da 32 m fu inaugurata nel 1983, essendo stata concepita per lavorare nelle reti internazionali, sia per l’astronomia sia per la geodesia. Il punto da ricordare è piuttosto che nel lontano 1960 quando Drake ha concepito il progetto per la ricerca d’intelligenza extraterrestre (Progetto SETI, Search for Extraterrestrial Intelligence) non era evidentissimo dove puntare i radiotelescopi. Adesso per lo meno è evidente dove non dobbiamo puntare i radiotelescopi! Con l’appoggio delle osservazioni della missione Kepler, conosciamo proprio le stelle che non sono adatte al SETI.
Fin dalla scuola tutti sappiamo che l’orbita terrestre è in sostanza un cerchio, ossia nel linguaggio del grande astronomo Keplero, la deviazione dal cerchio (eccentricità) è quasi nulla, come tutti i pianeti del sistema solare, con l’eccezione di Mercurio; l’eccentricità orbitale è seconda solo a quella del planetoide Plutone e 15 volte superiore a quella della Terra. Questa eccentricità fu una benedizione per lo sviluppo della scienza del ventesimo secolo: proprio Einstein che per dare una base solida alla teoria di gravitazione, ha focalizza la sua attenzione sull’eccentricità di Mercurio. Einstein, grazie alla relatività generale nel 1915, ha spiegato le anomalie osservate nell’orbita di questo pianeta più vicino di noi al Sole. Come spiega l’astrobiologa italiana Giovanna Tinetti, dell’University College, Università di Londra, nel suo bellissimo I pianeti extrasolari (Il Mulino, 2013), il cerchio deformato con eccentricità non nulla si chiama “elisse”; l’orbita si direbbe ellittica. Nel punto di massimo avvicinamento al Sole, ossia il perielio, Mercurio è a un terzo della distanza Sole – Terra (1 UA, unità astronomica); invece nel punto opposto di massima distanza (afelio) Mercurio è quasi alla meta di 1 UA.
La Missione Kepler durante la sua vita utile, ci ha mostrato sistemi solari ove la norma sarebbero orbite ellittiche. Tanto è vero che si può arrivare a deformazioni del cerchio 4 volte l’eccentricità di Mercurio. Un esempio è il pianeta HD 80606b, che varia da un perielio di poco più di un centesima di 1 UA fino a quasi 1 UA! Evidentemente, se avessi l’opportunità di vivere fuori della Terra, non sceglierei HD 80606b dove nel perielio la vita sarebbe piuttosto scomoda (fa caldissimo) mentre nell’afelio forse sarebbe più sopportabile. La spiegazione delle orbite ellittiche ci conduce a un argomento di notevole rilevanza per l’astrobiologia. Diciamo che una zona intorno a una stella è una zona abitabile se c’è la possibilità di mantenere acqua liquida sulla sua superficie. Non è invano che la filosofia delle agenzie spaziali, compressa quella italiane, è “cercare l’acqua” (follow the water) per la ricerca dei segni di vita altrove. Penso che la parola “filosofia” sia rilevante in questa situazione, ricordando che prima della frammentazione della nostra cultura, la scienza, la filosofia (e pure la teologia) costituivano un’unità della conoscenza.
Su Marte qualche progresso c’è stato. Nel dicembre del 2006 Mars Global Surveyor ha fornito le prove fotografiche che a tutt’oggi l’acqua fuoriesce da fenditure, lasciando tracce di erosioni sul terreno. Altre fotografie hanno mostrato letti di antichi fiumi, con isole che sorgevano al loro interno, prove inconfutabili che un tempo dei liquidi scorrevano, producendo le caratteristiche formazioni che ora ci sono. Mentre la più recente missione Curiosity, che ha raggiunto il pianeta rosso nel 2012, ci ha regalato una prova certa della passata esistenza di acqua sulla sua superficie, con immagini interpretabili come sedimenti fluviali. Invece, dobbiamo essere più attenti anche fuori della zona abitabile del Sole: su Europa, secondo satellite Galileiano di Giove a 4 AU da noi, ci sono evidenti segni di acqua, addirittura di un oceano profondo dieci volte più dal Pacifico. Sono tre i fattori da considerare: uno è la presenza d’acqua, l’altro è la fonte di energia, il terzo è l’abbondanza di atomi di carbonio. Sono tre elementi che rappresentano il denominatore comune della vita così come si è sviluppata sulla Terra.
Quando si va verso Marte è naturale che si cerchi l’acqua, perché senz’acqua non sarebbe possibile trovare la vita, le cellule viventi hanno bisogno di acqua per esistere. Noi siamo quindi convinti che dove c’è l’acqua ci potrebbe essere vita. Ma non necessariamente se c’è l’acqua c’è la vita. Anche al di là di Marte ci sono luoghi che sono candidati potenziali alla vita, dove abbiamo ipotizzato la presenza di acqua: è il caso del satellite di Giove, Europa, e del satellite di Saturno, Encelado. Su Encelado è abbastanza chiaro che ci possa essere acqua, ma su Europa ci sarà una quantità d’acqua più grande. Dunque, cercare l’acqua è cercare la vita; ma non necessariamente è riuscire a trovare la vita. Recentemente alcuni scienziati inglesi hanno pubblicato sulla rivista Astrobiology un articolo in cui le zone abitabili di alcuni pianeti extrasolari sono considerati come uno specchio di cosa potesse succedere sulla Terra nel futuro. Per comprendere questo quesito è necessario considerare l’età della Terra e l’età dell’universo. La Terra nasce quando l’universo era piuttosto antico, cioè 7 – 8 miliardi di anni dopo il Big Bang, ossia dopo la nascita dell’universo circa 13 miliardi di anni fa Gli scienziati britannici hanno usato quello che Kepler ci ha fornito finora, una conoscenza delle orbite degli esopianeti. Essi ci permettono di porre domande come: quali sarebbero la vita media dell’abitabilità dei pianeti come la Terra, quando la sua stella invecchia e si espande, cambiando la natura della zona di abitabilità? Le risposte a queste domande ci permetterebbero di capire, “specchiandoci” in altri sistemi solari, quello che capiterà a noi. Purtroppo, per essere sicuri delle risposte, per avere uno vero specchio in questi esopianeti, abbiamo bisogno di altre missioni, poiché, come abbiamo accennato, questa straordinaria missione non ci può fornire risposte affidabili, specie per quello che concerne stelle come il Sole. Aspettiamo anche altre iniziative con grandi progetti, ossia strumenti scientifici sempre più avanzati che ci aiuteranno in questo senso: il nuovo telescopio orbitale della Nasa, il James Webb Space Telescope (JWST) che sostituirà l’Hubble Space Telescope; nuovi telescopi come il Giant Magellan Telescope; oppure le missione post-Kepler già in progettazione.
Sempre la Nasa progetta la missione FINNESSE (Fast INfrared Exoplanet Spectroscopy Survey Explorer), con nuovi strumenti capaci di misurare molecule nelle atmosfere degli esopianeti. L’ESA (Agenzia Spaziale Europea) prevede anche la missione EChO (Exoplanet Characterisation Observatory) che sarà in grado di osservare 2 milioni di stelle come il Sole e altre di una luminosità inferiore. EChO farà delle osservazioni di mille stelle più piccole del Sole, le nane rosse, che hanno una lunghezza di vita superiore al Sole. Altre missioni saranno in grado di scoprire anche satelliti delle esopianeti come il CHEOPS (CHaracterising ExOPlanets Satellite). Dobbiamo considerarci fortunati vivendo in questo periodo che, per la prima volta nella storia dell’umanità, ci fornirà con gli esopianeti uno “specchio” con cui anticipare il futuro della Terra. Gradualmente ci stiamo riconoscendo come un pianeta fra miliardi di mondi in evoluzione cosmica. Quando FINNESSE, EChO, CHEOPS, JWST e altri strumenti ci forniranno le risposte alle domande che aspettiamo, saremo noi astrobiologi con grande emozione a continuare a porre delle domande profonde, come quelle degli scienziati britannici sul futuro dell’umanità.