Entro il 2015 circa 15 miliardi di dispositivi saranno connessi a Internet e oltre un terzo di essi saranno sistemi intelligenti. È la previsione lanciata qualche tempo fa dalla Intel ma ben si accorda con le stime di molti osservatori delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) e col fiorire di iniziative in campo industriale e commerciale. La interconnessione di tutti quei dispositivi e sistemi intelligenti contribuirà a costituire un nuovo livello della grande rete che viene ormai comunemente denominato “Internet degli oggetti” (Internet of Things o IoT).
È un tema di sui si parla da qualche anno ma ora sta esplodendo: se ne interessano industrie, istituzioni e società di servizi in tutto il mondo; se n’è avuto un’eco particolarmente significativo alla manifestazione SPS IPC Drives Italia, la fiera italiana dell’automazione industriale conclusasi ieri a Parma, durante una seguita tavola rotonda nella quale sono stati presentati non solo progetti e idee ma anche sperimentazioni e applicazioni in vari ambiti, industriali e civili.
Che cos’è l’IoT? È una rete che invece di connettere computer come quello dal quale state leggendo questo articolo, connette oggetti di vario tipo, tutti dotati del loro indirizzo IP, del loro account, e di un software che consente la lettura, l’interpretazione e l’interazione con molti tipi di dati. Secondo la Commissione Europea – che all’argomento ha dedicato una parte, con relativi finanziamenti, nel 7° Programma Quadro –riguarderà tre modi di comunicazione che possono essere stabiliti in ambiti ristretti («intranet degli oggetti») o pubblicamente accessibili («internet degli oggetti»); e cioè comunicazione: da oggetto a persona; da oggetto a oggetto; da macchina a macchina (M2M).
Gli esempi sono presto fatti: in uno scenario di un punto vendita connesso alla IoT, i dati meteorologici indicanti precipitazioni in arrivo potrebbero andare a modificare i contenuti della rete di cartellonistica digitale del negozio, con variazioni di prezzo per gli articoli legati al cattivo tempo, come gli ombrelli. Nell’ambito dei trasporti, questa tipologia di dati potrebbe venire condivisi tra diversi veicoli e il cloud – la nuvola che ormai abbiamo imparato a conoscere – consentendo ai guidatori di ricevere aggiornamenti sul traffico in tempo reale, informazioni sulla sicurezza e sulla manutenzione dei mezzi e altri servizi basati su localizzazione geografica.
Ma ancora si può parlare di IoT nella grande distribuzione, nella logistica e poi in tutti gli ambiti industriali dove una gran quantità di apparecchiature, dispositivi, macchine e strumenti sono già connessi e veicolano una enorme mole di dati, che possono essere scambiati e attivare un ininterrotto dialogo tra le cose senza passare dall’intermediazione dell’uomo.
Questi scenari sono ancor più esaltati da nuove prospettive tecnologiche legate ai sistemi wireless: come già per l’internet che utilizziamo in case e uffici, non è necessario che in tutti i punti di aggancio alla rete arrivi un ingombrante cavo e neppure che l’apparecchiatura connessa sia fissa. È il grande vantaggio del Wi-Fi, che stiamo sperimentando anche nel centro cittadino di molte metropoli. E per chi ha il panico dell’esaurirsi della batteria del proprio dispositivo mobile, ecco in arrivo sistemi wireless in grado di fare a meno delle batterie recuperando energia da ogni piccolo o grande movimento meccanico, secondo una tecnica denominata energy harvesting.
Quello che si prefigura quindi è un modo popolato da oggetti con grandi potenzialità e autonomia di interconnessione. C’è anche chi si spinge oltre nel disegnare gli scenari della comunicazione tra le cose e prospetta già i possibili Social network of things, dove gli oggetti twittano tra loro, postano messaggi e creano community.
E l’uomo in tutto questo? Domanda più che legittima; ma le aziende che stanno scommettendo sull’IoT non sono così ingenue dall’ignorarla. Solo che le risposte il più delle volte sono scontate e riduttive, fatte di promesse rassicuranti e di garanzie date dai sistemi di controllo distribuiti e ridondanti (sempre che anche questi non siano a loro volta connessi alla IoT che devono controllare).
Non si tratta comunque di demonizzare questi sistemi solo perché l’uomo non è presente fisicamente lì dove si svolge il processo o l’attività o l’applicazione. Non porta alcun frutto una chiusura a priori per paura, per pigrizia di fonte al nuovo o per evitare rischi (anche perché è una battaglia perdente: da qualche parte ci sarà sempre qualcuno che proverà …).
Si tratta piuttosto di prendere molto sul serio gli interrogativi che le nuove prospettive pongono; a partire dalla domanda sul perché si dovrebbero implementare certe tecnologie. Il vero rischio è che il movente dell’innovazione sia una sorta di automatismo intrinseco e autoreferenziale: si realizza il nuovo “per il solo fatto” che ci sono le tecnologie abilitanti (terminologia molto in voga nel mondo high tech).
D’altra parte le nuove tecnologie della comunicazione, al pari di alcune altre emergenti (in realtà già emerse) come le nanotecnologie o le biotecnologie, nascono con incorporato il tema della sicurezza e dei controlli, almeno sul piano tecnico (basta guardare i progetti: il capitolo sicurezza è sempre ampiamente presente e nelle nuove tecnologie i livelli e i sistemi di sicurezza e controllo sono molto più elevati che nelle tecnologie tradizionali).
Ma la tecnica non basta. Bisogna che una analoga, o maggior, attenzione si imponga anche a livello culturale; che la consapevolezza dei problemi sia più diffusa e, al di là dei dettagli tecnici, porti a galla che cosa è in gioco di ciò che è tipicamente umano. Di fronte a ogni nuova ondata di novità non si tratta di cliccare il bottone “mi piace”; non è solo questione di opinioni o di gusti, e neppure di curiosità da terza pagina: bisogna allargare e approfondire il dibattito. Di queste tecnologie disputandum est.