Cosa potrebbe spingere noi uomini del XXI secolo a un cambiamento del tipo di vita così radicale come quello che verso la fine dell’ultima glaciazione (più o meno 10.000 anni fa) ha portato alcuni cacciatori-raccoglitori a diventare agricoltori? Il confronto, pur con tutte le debite proporzioni, non è così peregrino: in fondo, la stoffa umana di cui siamo fatti non è troppo diversa da quella di quei nostri progenitori, dai quali peraltro ci separano circa 400 generazioni. Può essere un esercizio stimolante quello di guardare dentro di noi oggi, alla ricerca di possibili valide motivazioni per una trasformazione del genere. Si potrebbero scoprire cose interessanti su chi siamo e su come ci rapportiamo con gli altri, con la natura, con l’ambiente.
Cosa può spingere allora a un simile passo? Non certo la ricerca di una vita più comoda. La vita del contadino è più faticosa di quella del nomade cacciatore-raccoglitore, come si può anche oggi verificare nella vita dei gruppi di cacciatori-raccoglitori tuttora esistenti. Una motivazione che soprattutto oggi può muovere è la preoccupazione per il domani, la sollecitudine a che i nostri figli, la comunità in cui viviamo possa continuare a vivere e prosperare. Liberarsi dall’aleatorietà della caccia (a volte va bene, ma tante volte si torna a mani vuote) è stata sicuramente una spinta importante per iniziare a coltivare.
La caccia, la pesca e i molluschi rappresentavano una fondamentale risorsa alimentare per i nostri antenati. Ma frutti, radici, tuberi e semi di piante selvatiche erano attivamente raccolti; e lo documentano il ritrovamento di resti di frutti e semi carbonizzati e mineralizzati in numerosi siti paleolitici e mesolitici. Le piante raccolte erano piante selvatiche e si comportavano come tali: hanno la caratteristica di disperdere i semi nell’ambiente e i semi, dovendosi difendersi dai predatori, sono naturalmente ricchi di sostanze tossiche e ricoperti da involucri legnosi protettivi.
Tutti questi caratteri dipendono dall’azione di specifici geni presenti nel patrimonio genetico di ogni pianta, ma di tanto in tanto vanno incontro a mutazioni spontanee che li rendono inattivi. Sono mutazioni molto svantaggiose per le piante perché le privano di caratteristiche importanti per la sopravvivenza allo stato selvatico, ma sono molto interessanti per dei raccoglitori. Cosa c’è di meglio che trovare spighe mature con ancora i semi attaccati al rachide, semi non ricoperti da glume che possono essere subito macinati piuttosto che sbucciati uno ad uno e che messi in terra prontamente germinano?
È qui che si instaura quel “dialogo” sui generis tra uomo e natura messo in evidenza nella mostra “Naturale, artificiale, coltivato. L’antico dialogo dell’uomo con la natura” curata da Euresis e visitabile nei prossimi giorni al Meeting di Rimini. Le mutazioni sono fatti naturali, che avvengono spontaneamente, ma il nostro antenato, raccoglitore sistematico che esplora quotidianamente il suo territorio, le nota e ne comprende il valore. Sono piante preziose, potrebbero facilitare di molto la raccolta del cibo e vale la pena vedere se questi caratteri si mantengono, cioè se la mutazione viene conservata anche nelle generazioni successive.
Ha inizio quindi un doppio processo: la domesticazione, cioè la scelta da parte dell’uomo di quei mutanti spontanei con caratteristiche per lui favorevoli, e la coltivazione, che implica la conservazione del seme, la preparazione del terreno, la raccolta, la semina, cioè un preciso progetto culturale.
Ma come si faceva a sapere che raccogliendo quelle spighe di frumento e mettendo a dimora i semi sarebbe iniziato un ciclo virtuoso? Qui gioca un altro fattore: è l’inarrestabile passione dell’uomo per provare, sperimentare, ricercare nuove strade: l’uomo preistorico guarda la natura, cerca di comprenderla, usa la ragione per vedere se da ciò che vede si può estrarre qualcosa di più ampio che superi i confini conosciuti. Si manifesta qui l’identità profonda dell’umano: un’inquietudine radicale, che lo spinge all’azione e che dà inizio a una storia che animerà le grandi civiltà del passato e anche a quelle di oggi. Emerge l’io, protagonista della vita e costruttore di storia.
Domesticazione e coltivazione, i due processi alla base dell’invenzione dell’agricoltura, si sono ripetute – come racconta efficacemente la Mostra di Euresis – sostanzialmente immodificate, in diverse parti del pianeta, in tempi diversi e con piante diverse. È stata l’opera di molti uomini che hanno agito indipendentemente gli uni dagli altri, in tempi diversi e in territori diversi, documentando lo stesso atteggiamento di fondo nei confronti dell’ambiente che li ospitava: non passivi di fronte alla natura (solo raccoglitori), né dominatori, ma “coltivatori”, cioè in rapporto continuo con il territorio in cui vivevano.