DIBATTITI/ Il biologo parla come un ingegnere. Ma sono solo metafore

- Mario Gargantini

Per spiegare la scienza i comunicatori utilizzano molte metafore. Ma abusarne comporta dei rischi. MARIO GARGANTINI analizza il dibattito in corso tra ricercatori e divulgatori

DNA_double_helixR439 Immagine presa dal web

La comunicazione scientifica sta diventando la festa della metafora. La difficoltà di rendere accessibili idee e spiegazioni che fanno ampio uso di termini, formalismi e modelli molto lontani dal linguaggio e dall’armamentario concettuale del cittadino medio, porta i comunicatori – siano essi giornalisti, scienziati o insegnanti – a fare ricorso frequentemente a esempi, paragoni e riferimenti di tipo metaforico. Alcuni sono diventati celebri e sono a loro volta passati nel normale arsenale espressivo di tutti, anche se non sempre (anzi, quasi mai) supportati da una effettiva comprensione dei reali significati dei termini e della inevitabile distanza e distinzione tra la metafora utilizzata e il concetto che si intendeva rappresentare.

Chissà a che tipo di elica pensano tutti coloro che sentono nominare la “doppia elica” del Dna? O che forma di “mattoni” hanno in mente quelli che sentono parlare dei quark e degli elettroni come dei mattoni fondamentali dell’universo? E che effetto farà l’espressione “gene egoista” coniata nel 1976 dal biologo Richard Dawkins per illustrare la sua visione dell’evoluzione centrata sul corredo genetico iscritto nel Dna? Anche grandi scienziati hanno introdotto le loro idee innovative ricorrendo da subito a espressioni metaforiche: come Sigmund Freud, che ha descritto il recupero di un io danneggiato dalla nevrosi come la “bonifica di terre alluvionate”; o Albert Einstein, che si immaginava “a cavallo” di un raggio di luce viaggiando a velocità elevatissima ma non infinita.

È soprattutto nella biologia sintetica che le metafore abbondano, tanto da saturarla; almeno secondo la ricercatrice Eleonore Pauwels, del Wodrow Wilson International Center for Scholars di Washington, e il filosofo della scienza Andrea Loettgers, del California Institute of Technology di Pasadina. I due, armati di buona volontà, hanno intrapreso una vasta ricerca di documenti andando a spulciare oltre mille articoli scientifici nel campo della biologia sintetica, un numero enorme di interviste e quattro anni di rassegna stampa sul tema. Il risultato, comunicato dalla Pauwels sulle pagine di Nature – senza ricorrere a metafore – è che, benché le metafore rivestano un ruolo importante nella comunicazione e nella stessa ricerca, il loro uso può risultare ingannevole e fuorviante sia per il grande pubblico sia per gli stessi scienziati.

Quello che ha più colpito i due ricercatori è che nel caso della biologia sintetica molte metafore provengano dal campo dell’ingegneria. Già negli anni quaranta del secolo scorso, col nascere della biologia molecolare, era diventata popolare l’idea del Dna come del “software della vita”. Così, verso la fine del secolo, informatici, fisici e ingegneri erano convinti che si potesse orientare la vita delle cellule con le stesse modalità con le quali si programma un computer. D’altra parte nei laboratori di biologia si iniziavano ad utilizzare metafore ingegneristiche – come interruttori, oscillatori, porte logiche – sia per impostare i progetti di sistemi sintetici sia per comprendere il funzionamento dei sistemi naturali.

Presto però ci si è scontrati con i limiti e i vincoli dell’approccio ingegneristico nel contesto cellulare. Le metafore potevano servire solo come ispirazione ma non reggono alla prova della complessità tipica della biologia. La Pauwels porta l’esempio dei sistemi genetici visti come circuiti elettrici, dove i geni vengono accesi e spenti: il paragone funziona fino a un certo punto; infatti, a differenza della luce che dipende solo da un flusso di corrente, l’attivazione di uno specifico gene dipende da numerosi parametri e l’incidenza di tutti i singoli fattori è molto difficile da evidenziare.

Ci vuole quindi elasticità e accortezza nell’uso delle metafore; ciò non toglie che esse si rivelino particolarmente efficaci soprattutto nel momento in cui si aprono nuovi settori di ricerca: qui la metafora mostra i suoi vantaggi come strumento adatto al dialogo e al trasferimento di concetti tra differenti discipline scientifiche.

I ricercatori sono abbastanza consapevoli dei limiti e dei rischi di un utilizzo troppo disinvolto del supporto metaforico. Al Wilson Center hanno addirittura messo in piedi un programma per sviluppare una strategia che, sulla base di competenze multidisciplinari, offra un modello da impiegare soprattutto nelle fasi di lancio di innovazioni tecnologiche.

I guai maggiori sorgono quando la metafora esce dal laboratorio e, magari passando attraverso la TV, finisce sui banchi di scuola. Qui la questione si fa più seria. Anche se i docenti hanno gli strumenti adatti a verificare “in diretta” l’impatto del linguaggio sulla mentalità degli studenti e possono cogliere sul nascere incomprensioni e fraintendimenti. Il punto, tutto da verificare, è che siano consapevoli del problema.





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