Si spengono i riflettori su questo Anno Internazionale della Luce (IYL2015) e mentre si svolgono le ultime iniziative per illustrare le novità della fotonica e celebrare il centenario della Relatività Generale, si può tracciare un bilancio di questi dodici mesi di scienza e tecnologia che, a un nutrito elenco di risultati positivi, deve aggiungere incognite e qualche elemento di preoccupazione.
L’eco della Conferenza sul Clima (COP21) di Parigi è ancora ben presente e, mentre le città italiane cercano di strappare a Pechino il triste primato di massimo inquinamento atmosferico, centri di ricerca e programmi specializzati vedono intensificarsi l’attività per poter supportare le auspicate iniziative di politica ambientale ed energetica con dati sempre più attendibili.
Sarà ricordato come l’anno della svolta per le scienze del clima? Potrebbe esserlo se si verificheranno alcune condizioni che ha indicato Donatella Spano, Presidente della Sisc (Società Italiana per le Scienze del Clima) al suo rientro dalla conferenza parigina: «va sottolineato il modo sinergico in cui il trattato considera i temi della mitigazione e dell’adattamento, due pilastri irrinunciabili su cui le strategie e i piani di azione devono poggiare in maniera integrata per garantire la riduzione della concentrazione di gas a effetto serra in atmosfera e, allo stesso tempo, la limitazione della vulnerabilità dei nostri sistemi sociali, ambientali ed economici agli impatti negativi dei cambiamenti climatici che sono già in corso e che possiamo attenderci per i prossimi decenni». La Presidente della Sisc ha sottolineato che «i numerosi temi cui si fa riferimento nell’accordo di Parigi sono la prova ulteriore di come i cambiamenti climatici richiedano un tipo di ricerca scientifica che sappia ispirarsi all’interdisciplinarità, alla collaborazione tra saperi e competenze provenienti da discipline diverse e all’integrazione di esperienze e casi di studio».
Collaborazione e integrazione che non manca in campo astronomico; soprattutto nell’ambito dell’esplorazione planetaria, solare e extrasolare. Per quanto riguarda il nostro sistema solare, è stato l’anno dei pianeti nani, culminato in marzo con l’arrivo della sonda Dawn nell’orbita di Cerere e col passaggio della New Horizon nel cielo di Plutone. Qui ha trovato diverse sorprese, tra cui quella delle montagne di ghiaccio che si sarebbero formate cento milioni di anni fa a seguito dell’attività di vulcani che, a differenza di quelli terrestri, non eruttano lava ma ghiaccio, azoto, metano e monossido di carbonio.
Sul versante degli esopianeti, la scoperta più recente non viene dalla gloriosa sonda Kepler, che peraltro ha superato ogni record di avvistamenti di pianeti extrasolari, ma da uno strumento “terrestre”, cioè dallo spettrografo Harps montato sull’osservatorio da 3,6 metri dell’ESO (European Southern Observatory) a La Silla, in Cile: quello che un gruppo di astronomi australiani ha individuato attorno a Wolf 1061, una nana rossa distante appena 14 anni luce da noi, è un pianeta quattro volte più massiccio della Terra ma con le tipiche caratteristiche della abitabilità; risulta essere quindi il più vicino esopianeta potenzialmente abitabile.
Altra clamorosa astronotizia del 2015 è stata quella relativa alla possibile presenza, in passato, di acqua su Marte: a una prova, indiretta, era stato in settembre il satellite della Nasa MRO (Mars Reconnaisance Orbiter), che aveva permesso di interpretare le numerose strisce che variano di stagione in stagione con l’ipotesi più probabile che si siano formate per effetto di piccoli ruscelli. Ma anche qui la novità sembra già superata da ulteriori osservazioni: poco prima di Natale due ricercatori francesi hanno pubblicato su Nature Geoscienceuno studio secondo il quale i canali marziani non sarebbero stati scavati dall’acqua, bensì dallo “scongelamento” del ghiaccio secco, cioè di anidride carbonica solidificata; più precisamente, si tratterebbe del ben noto fenomeno della sublimazione del ghiaccio secco, ovvero del suo passaggio dallo stato solido a quello gassoso.
Scendendo sulla Terra per esplorare le principali conquiste della fisica nell’anno che sta terminando, si può consultare la rivista Physics World, che ha stilato un elenco ragionato dei dieci più importanti risultati indicando anche chiaramente i criteri adottati per la selezione: certamente il progresso conoscitivo apportato, ma anche la presenza di un forte legame tra teoria ed esperimento come pure l’interesse che uno specifico risultato può avere per tutti gli altri settori della fisica. La top ten risulta così composta, in ordine di importanza: la prima dimostrazione della possibilità di ottenere il teletrasporto quantistico simultaneo di due proprietà quantistiche di una particella fondamentale, il fotone; la misura della radiazione di ciclotrone a cui vengono emessi singoli elettroni durante il decadimento beta del cripto-83, realizzata dal consorzio Project 8; la prima prova sperimentale dell’esistenza delle particelle dette fermioni di Weyl, teorizzate 80 anni fa e che potrebbero essere alla base dei circuiti elettronici di nuova generazione; gli esperimenti che hanno confermato la violazione delle disuguaglianze di Bell nel mondo quantistico; la prima misura ad alta risoluzione della luce riflessa dall’esopianeta 51 Pegasi b; la dimostrazione dell’esistenza dei penta quark, ottenuta dall’esperimento LHCb al Cern; la scoperta del primo materiale superconduttore a 203 kelvin, cioè 70 sottozero che è una temperatura altissima per tali materiali; il primo apparecchio portatile per la risonanza magnetica, realizzato grazie ai superconduttori Squid; il primo microscopio fermionico, in grado di ottenere immagini di 1000 singoli atomi in gas ultrafreddi; infine il primo dispositivo di elaborazione di bit quantistici basato sulla tecnologia del silicio.
È dalle bioscienze che arrivano i principali chiaroscuri. Sono in molti infatti a promuovere come la più importante conquista scientifica dell’anno la tecnica del genome editing denominata CRISPR-Cas9 dove CRISPR sta per Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats. È un metodo che consente di intervenire sul Dna con una specie di forbici molecolari, tagliandone con precisione delle parti corrispondenti a delle sequenze-guida: possono essere parti con geni mutati, responsabili di specifiche patologie, al posto dei quali possono essere inseriti i geni corretti tramite ricombinazione omologa. Una sorta di taglia-incolla, che consente interventi molto più potenti e risolutivi, e più economici, della terapia genica finora sperimentata: è un sistema che permetterebbe di colpire alla radice le malattie genetiche, eliminando totalmente i geni difettosi e rimpiazzandoli con quelli funzionanti correttamente.
In verità la prova della fattibilità di questa forma di genome editing è stata data già nel 2012 ma nel corso di quest’anno il metodo è decollato, con continui sviluppi, perfezionamenti delle metodiche e investimenti in start-up. Ma sta già suscitando una serie di reazioni preoccupate, soprattutto per i possibili interventi sul Dna di embrioni o di cellule germinali. Finora non c’è documentazione ufficiale che ciò sia stato fatto sull’uomo; ma la prospettiva che ciò possa verificarsi ha già fatto scattare reazioni forti: come quella di un gruppo di scienziati americani che dalle colonne della rivista Naturenel marzo scorso hanno chiesto una moratoria nelle applicazioni del genome editing (“Don’t edit the human germ line”), indicando i seri rischi di modificazioni del genoma delle quali non sono chiare le conseguenze a fronte di benefici terapeutici ancora minimi.
Forse è proprio uno di quei casi nei quali il metodo del dialogo, il più ampio e approfondito possibile, va applicato con precedenza assoluta. Ed è questo invito l’eredità più importante che ci consegna il 2015.