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Home » Politica » Giustizia » SCONTRO SULLA GIUSTIZIA/ “1994 e 2023, c’è sempre una riforma di mezzo”

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SCONTRO SULLA GIUSTIZIA/ “1994 e 2023, c’è sempre una riforma di mezzo”

Marco Zacchera
Pubblicato 8 Luglio 2023
Carlo Nordio, ministro della Giustizia (LaPresse)

Carlo Nordio, ministro della Giustizia (LaPresse)

Lo scontro sulla giustizia richiama toni e metodi del '94. Allora nel mirino dei pm c'erano il decreto Biondi e la custodia cautelare, oggi la riforma di Nordio

Cambiano gli attori (ora soprattutto sono in scena le attrici), le vicende e i protagonisti, ma non muta la sostanza: è di nuovo battaglia aperta tra il centrodestra e le toghe, soprattutto quelle milanesi.

Inevitabili i riferimenti e le similitudini di oggi con quel tumultuoso 1994, quando l’arrivo imprevisto di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi scatenò quella lunga e cruenta guerra di trincea tra il potere esecutivo e quello giudiziario che raramente, negli ultimi trent’anni, ha covato sotto la cenere, incendiando quotidianamente le cronache politico-giudiziarie.


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È più di un sospetto che – oggi come allora – a scatenare i reciproci attacchi siano i più o meno organici tentativi di riformare la magistratura, che non accetta (almeno in parte) di perdere potere, quello che si è costruita nei decenni e soprattutto all’inizio degli anni 90 quando “Mani pulite” portò a rovesciare la lunga serie di governi della “prima repubblica”.


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Sembra una maledizione, ma di mezzo c’è sempre ed innanzitutto il mese di luglio, quello che sembra condizionare le ricorrenti puntate dello scontro.

Era il 13 luglio 1994 quando il governo Berlusconi 1 varò il “decreto Biondi” (soprannominato subito “decreto salvaladri”) che in poche parole prevedeva gli arresti domiciliari e non più la custodia cautelare in carcere per gli accusati di reati finanziari e contro la pubblica amministrazione.

Si giocavano i mondiali di calcio e quel giorno l’Italia batté la Bulgaria (tanto che subito qualcuno sostenne che si contava sulla distrazione dell’opinione pubblica), sta di fatto che il decreto dava una spallata ai metodi spicci del pool di Milano che nei mesi precedenti aveva avuto il merito di scoperchiare un formidabile giro di tangenti politiche e di affari, legando a lunghi soggiorni a San Vittore le confessioni dei suoi protagonisti.


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“Una barbarie” pensava qualcuno, “no, metodi indispensabili” sosteneva una buona parte del Paese, colpita dalla scoperta di un potere corruttivo che tutti sapevano od immaginavano, ma che ufficialmente restava sempre sottotraccia.

Sta di fatto che l’arrivo di Berlusconi al governo non solo aveva fatto inorridire l’ ex magistrato Oscar Luigi Scalfaro, eletto al Quirinale due anni prima, ma dato spazio ad un discusso imprenditore d’assalto con molte tresche nascoste nell’armadio.

Immediata l’antipatia reciproca, ma fu il “decreto Biondi” che portò le toghe milanesi a schierarsi formalmente contro il Governo spaccando il Paese (il decreto fu poi ritirato), minacciando pubblicamente le dimissioni e presto “vendicandosi”. L’occasione avvenne il 21 novembre del ’94. Berlusconi presiedeva a Napoli un convegno internazionale sulla criminalità quando venne raggiunto da un avviso di garanzia per corruzione. Meglio, proprio quel giorno fu diffusa la notizia (che fece il giro del mondo) perché lo stesso interessato lo apprese solo leggendo il Corriere della Sera, informato dei fatti da una “gola profonda” e dopo – si disse e si scrisse – un fitto rapporto Scalfaro-Borrelli, l’allora capo del “pool”.

Cosa effettivamente successe è riassunto (e ne merita la lettura) in un lungo articolo di Filippo Facci apparso su Libero il 14 giugno di quest’anno. È una lunga spy-story fatta di veline, indiscrezioni, amanti coinvolte, dossier avvelenati, pressioni e contromosse. Una vicenda che travolse Berlusconi e il suo primo governo tra i (probabili) sorrisetti soddisfatti al Quirinale, sollievo dell’opposizione e – ovviamente – l’accusa ai magistrati milanesi di aver scientemente organizzato una imboscata politica. Certo fu l’inizio dell’infinita serie di accuse reciproche, processi, condanne, prescrizioni, ricorsi, appelli che hanno contraddistinto l’Italia berlusconiana di questo trentennio e che sembra ora sopravvivere al Cavaliere.

E oggi? Uscendo dalla cronaca non c’è dubbio che la Meloni non sia Berlusconi, ma ha intorno personaggi attaccabili ed è proprio sui tempi e sui modi delle inchieste che nasce la similitudine con il ’94. Allora sul tavolo c’era la riforma di una custodia cautelare che condizionava gli interrogatori, oggi la riforma Nordio che taglierebbe le unghie a molte intercettazioni, quelle che furono e sono spesso la base delle inchieste giudiziarie.

Nel mezzo gli anni e le polemiche, l’emergere di scontri interni non solo alla politica ma anche tra i magistrati, che come i politici – vedi l’affaire Csm-Palamara – sicuramente ci hanno messo del loro.

Perché alla fine il copione ha lo stesso finale ed il dubbio resta irrisolto: per chi “tifano” i magistrati, soprattutto quelli milanesi? L’accusa (da destra) è di guardare a sinistra e quindi non solo di condizionare la gestione delle indagini, ma di diventare il vero braccio armato dell’opposizione, quando – ieri Berlusconi, oggi la Meloni – a Roma c’è un governo “nemico” e che vorrebbe quindi riformare volentieri il mondo delle toghe. Intanto, la guerra continua.

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Tags: Silvio BerlusconiGiorgia MeloniLuca PalamaraCarlo NordioGoverno Meloni

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