Il caso della primaria “Battisti” di Mestre rappresenta in modo plastico l’emergenza demografica dell’Italia. Servono iniziative politiche coraggiose
Alla primaria “Cesare Battisti” di Mestre i numeri colpiscono subito: su 61 bambini iscritti, appena una decina ha la cittadinanza italiana e solo uno proviene da una famiglia radicata da generazioni in città. Gli altri sono figli di famiglie arrivate da lontano, che cercano qui il proprio futuro. Alcuni genitori italiani hanno scelto di portare i figli altrove, e all’interno della scuola il dibattito è acceso: insegnare in classi dove molti non parlano ancora la lingua è una sfida quotidiana, che richiede energie straordinarie.
Il caso è arrivato fino in Comune, ma come spesso accade in Italia il rischio è che tutto venga ridotto a slogan contrapposti. Chi parla di “scuole ghetto”, chi invoca più integrazione. Eppure, questa vicenda mette in luce un problema più grande e meno discusso: la denatalità.
Negli ultimi dieci anni l’Italia ha perso un milione e 400mila residenti. Significa meno bambini che nascono, meno giovani che crescono, meno famiglie nei nostri quartieri.
Se guardiamo al futuro, i numeri fanno impressione: entro il 2035 le scuole primarie avranno circa mezzo milione di alunni in meno. Al Sud la contrazione sarà più forte: quasi 200mila bambini in meno nei banchi. La Sardegna, per esempio, potrebbe perdere oltre un terzo dei suoi scolari, mentre Abruzzo, Molise, Basilicata e Puglia si fermeranno attorno al 25%.
Tutto questo non resterà senza conseguenze. Oggi in Italia ci sono circa 15mila scuole primarie, frequentate da 2,4 milioni di bambini. In dieci anni, molte di queste aule rischiano di svuotarsi. Circa 3mila comuni, soprattutto piccoli centri del Sud e delle aree interne, potrebbero vedere chiudere l’unico plesso esistente. E dove chiude una scuola, spesso si spegne anche un pezzo di comunità.
Ma non tutto è solo perdita. Meno alunni potrebbero significare anche classi più piccole, più vicine ai bisogni dei ragazzi, e forse la possibilità di affrontare un male cronico della scuola italiana: il precariato. Un ridisegno dell’organico, se ben gestito, potrebbe stabilizzare molti docenti e restituire continuità educativa.
Il caso di Mestre, allora, non è solo una storia di integrazione difficile. È il riflesso di un Paese che invecchia, che fa fatica a riempire le proprie scuole, ma che potrebbe anche sfruttare questa fase per cambiare in meglio.
Perché se vogliamo che la scuola resti il cuore vivo delle nostre comunità, non bastano polemiche di giornata. Servono politiche familiari serie, sostegni concreti per chi vuole avere figli, servizi accessibili e lavoro stabile per le giovani coppie. Solo così le aule di domani non saranno vuote, ma luoghi vivi, capaci di educare e unire nuove generazioni.
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