La serie "Adolescence", tra molti difetti, consegna agli educatori un compito, quello di essere presenze reali, positive, davanti alla domanda dei giovani
Adolescence è come un lungo reportage giornalistico, o un servizio di cronaca con interviste; ma è anche come una mano alla gola che ti stringe, o come quel senso di sgomento, paura, incredulità che provi ascoltando l’ennesimo episodio di violenza giovanile mentre, tra un boccone e l’altro, guardi il Tg della sera: però, in questo caso, lo sgomento dura alcune ore e ti entra dentro, lasciandoti pervaso da un disagio che fatica a svanire nei giorni successivi.
Indubbiamente la regia è magistrale nel creare l’effetto di immersione totale, che rende lo spettatore emotivamente partecipe, senza scampo e senza tregua, senza possibilità di sollievo o distrazione. Tuttavia, oltre appunto alla durata e alla straordinaria messa in scena, davvero rinveniamo una qualche originalità in questa narrazione? Cosa aggiunge alle innumerevoli notizie sulla gioventù bruciata del nostro tempo, sulla violenza dilagante delle baby gang, sui ragazzi “a posto” e sulle famiglie “normali” travolte inspiegabilmente da quel male di vivere sempre avvertito possibile per gli altri, mai per sé stessi?
Sicuramente offre un’ennesima possibilità di riflessione su quei temi, che però non sono sintetizzabili nel titolo, Adolescence: la miniserie offre sì uno spaccato di vita di un ragazzino, autore di un efferato omicidio ai danni di una sua coetanea, mostra sì il tarlo terribile e strisciante del bullismo nascosto nelle aule scolastiche, denuncia sì il dannoso imperversare dei social, tuttavia, questa non è l’adolescenza, ma soltanto alcune sue manifestazioni possibili, che hanno invece il merito di illuminare il mondo adulto incapace di capire e conoscere i propri giovani.
Docenti, familiari, forze dell’ordine, medici: sono tutti – oserei dire volutamente – nascosti dietro “le regole e le doghe delle proprie tinozze” (cfr E.L. Masters, Il bottaio), spaventati o concentrati a riflettere sulle proprie colpe e sulle proprie ignoranze rispetto a quei ragazzini, che attendono invano una qualsiasi vera mossa educativa, una proposta, uno sguardo sincero.
In un solo momento della storia emerge una postura tentativamente adeguata dell’adulto, cioè quando l’ispettore capo Luke Bascombe invita il figlio Adam a pranzare insieme e noi li vediamo andare via in auto ridendo, con questo padre un po’ imbarazzato ma finalmente accortosi di qualcosa che non va. Ecco, qui vediamo un nuovo inizio: la proposta di un rapporto e il sollievo di chi finalmente non si sente più solo.
Sorte ben diversa tocca invece al protagonista Jamie, che mostra l’unica sua vera, grande, ferita al termine del colloquio con la psicologa: “Ma io ti piaccio?”; il silenzio della dottoressa è letteralmente un’azione criminale, perché lascia in preda all’angoscia quel ragazzino, inconsapevole di tutto, compreso l’omicidio, ma non del baratro del proprio bisogno, del vuoto di riconoscimento di sé, della mancanza di qualcuno che lo guardi davvero.
Ecco, proprio questa domanda inascoltata corrisponde al titolo Adolescence, non il resto: qui sta il nodo drammatico dell’io che, in questa età della vita splendida e drammatica, vuole prendere coscienza di sé stesso e, dunque, necessita di sponde, specchi, riferimenti credibili a cui domandare: tu mi vedi? Mi ri-conosci? Sono degno di essere amato? Essere presenza davanti a tale quesito è l’unica vera sfida per l’adulto e, in questa storia, soltanto l’ispettore Luke sembra raccoglierla.
Tuttavia c’è un punto interessante, che rilancia e sostiene anche la povertà educativa delle famiglie: alla fine dell’ultima puntata, il padre di Jamie si chiede come abbiano fatto ad avere una figlia così eccezionale e la moglie risponde: “Come abbiamo fatto Jamie”. Ecco, questa risposta ci fa oltrepassare di slancio l’impostazione totalmente ed erratamente deterministica che sottende tutta la storia, per cui genitori imperfetti, docenti incapaci, medici impreparati generano necessariamente giovani fragili, violenti, soli.
Invece, in quel momento, in quella risposta, emerge il mistero che non solo ogni ragazzo in crescita è, ma che l’educazione stessa è: a medesimi genitori corrispondono figli diversi; le stesse parole, gli stessi divieti, gli stessi gesti dei medesimi genitori o educatori cadono, come semi, in terreni unici e germinano come piante altrettanto uniche ed è per questo che Jamie è misteriosamente diverso dalla sorella Lisa. Di fronte a questo insondabile mistero, come di fronte al rinato rapporto fra Luke e Adam, noi spettatori tiriamo un sospiro di sollievo e speranza; tutto il resto invece rientra nel già saputo e nel già detto sul mondo giovanile, con i consueti toni accorati, drammatici, ma accusatori contro tutto e tutti.
Non solo: il dialogo con la psicologa – puntata che ha riscosso il maggior successo – è totalmente concentrato sulla violenza di genere; fin dalla prima domanda, Jamie è invitato a riflettere sui modelli maschili della propria famiglia, in un percorso riflessivo con la tesi già nota e identicamente presente in tanti articoli dei nostri quotidiani. Forse che la violenza di Alex e dei suoi drughi nasceva da un genitore violento? Forse che i ragazzini delle nostre baby gang non hanno spesso famiglie rispettabili ed altolocate, spesso iperpresenti ed amorevoli?
Chiediamoci dunque se vogliamo veramente continuare a ridurre la rappresentazione dei nostri ragazzi ai consueti clichés e stereotipi che, come tutti i luoghi comuni, hanno certamente un dato di realtà, ma esasperato a favore di altro. Continuare a rimarcare l’errore, il disagio, il male, alla fine è un modo per non prendere sul serio questa benedetta “emergenza educativa”; è un modo per quietare la coscienza, che dimostra di sapere dove sta la verità soltanto additando ciò che è da cambiare, ma non riuscendo a mostrare il cambiamento possibile, anzi magari non riuscendo a vedere quello già in atto nelle nostre strade, scuole, case, dove tantissimi adulti e adolescenti sono segno per tutti di un mondo diverso che già c’è. Come ostriche aggrappate agli scogli, colmiamo l’etere, i media, gli schermi di parole accorate, come per dire a noi stessi che facciamo qualcosa, mentre invece niente cambia finché non cominciamo a guardare davvero persone e luoghi che già segnano strade nuove possibili. In mare aperto.
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