Due istanze si sono sovrapposte nel dibattito sull’esame di maturità. Il “fuck the System” è troppo poco, non basta. Occorre accettare la sfida
Ancora risuona l’eco dei casi di quei ragazzi che, rifiutando il colloquio di maturità da già “salvi” per il credito accumulato con gli scritti, hanno voluto mandare un messaggio sull’inadeguatezza del sistema e, per alcuni soprattutto, centrando il focus sulla mancanza di attenzione alla persona da parte degli insegnanti e del sistema scolastico in generale.
Non è chiaro fino in fondo se l’istanza sia quella di cambiare il sistema o quella (più seria) di essere “guardati” e non semplicemente “visti”. I confini tra le due questioni tendono a confondersi.
Nel primo caso, dopo anni di lavoro nella scuola come docente che ha vissuto cambiamenti più o meno incisivi, mi è sempre più chiaro non solo che il sistema perfetto non esiste e soprattutto che non è il sistema che assicura la perfetta valorizzazione dei propri talenti, ma che qualsiasi miglioria si voglia apportare, questa si scontrerà inevitabilmente con un apparato ingessato da troppa burocrazia e, comunque, troppo sindacalizzato.
Da questo punto di vista – annosa questione – la scuola andrebbe liberata con un’autonomia vera, ma qui il discorso si farebbe lungo e tortuoso.
Nel secondo caso la questione si fa umanamente molto seria. È vero: i ragazzi hanno bisogno di essere “guardati”. Questo significa che, nel rispetto dei ruoli, vi sia un autentico rapporto empatico che tenda a considerarli in tutto il loro essere. In tale relazione ci può stare dentro tutto, anche il voto negativo, anche il rimbrotto se veramente interessati al ragazzo che ci sta di fronte.
Nella scuola – anche se a volte funziona come una catena di montaggio: entro, saluto, appello, spiego, verifico, esco –, c’è sempre spazio per molto di più. Nel presentare un argomento i ragazzi si accorgono se il docente c’è o non c’è, cioè se è appassionato a quello che fa o non lo è; perché la passione per quello che si fa è alimentata innanzitutto dal destinatario del proprio lavoro: cambia la posizione se mentre si prepara una lezione o mentre si raccolgono i rifiuti o mentre si costruisce una casa o preparando la dichiarazione dei redditi si tengono presente gli altri a cui le nostre azioni sono destinate.
Questo esame, dalle modalità evidentemente insufficienti anche alla luce dello sviluppo delle nuove tecnologie legate all’intelligenza artificiale che spesso all’orale alimentano i già stucchevoli collegamenti tra argomenti delle varie discipline, cambia se parametrato alla persona che si ha di fronte; dal mio particolare punto di osservazione (sono stato più volte docente commissario alla “maturità”) posso testimoniare che questo capita in modo ufficioso.
E comunque rimane la questione: se dietro il rifiuto del colloquio di esame di Stato c’è solo un misero “fuck the system”, allora è troppo poco e inutile! Se invece c’è un grido più profondo, noi adulti non possiamo più ignorarlo.
Questo non significa coccolare i ragazzi, togliere loro fatiche e difficoltà di cui la vita è e sarà piena, ma prenderli talmente sul serio da far maturare in loro il sentimento dell’attesa fiduciosa di fronte al futuro, da diventare loro compagni di fronte alle prove della vita: non “sfighe” da subire, ma “sfide” da affrontare per diventare sempre più se stessi.
Cosa ci permette di interessarci allora veramente dell’altro? Cosa ci può aiutare in questo? Cercare un luogo di docenti o persone appassionate all’educazione dei ragazzi, facendo loro compagnia perché possano diventare sempre più se stessi anche e soprattutto, attraverso le difficoltà.
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