Arriva il consenso informato dei genitori per i corsi di educazione sessuale a scuola. Ma resta ancora molto da fare: va smantellato l'alias

Il ministro Valditara, durante la conferenza stampa a margine dell’ultimo Consiglio dei ministri, ha annunciato una serie di provvedimenti riguardanti l’educazione sessuale, in particolare nelle scuole secondarie.

Nel programma elettorale del suo partito era chiaramente indicato l’obiettivo dell’“Implementazione della normativa ministeriale inerente al consenso informato preventivo dei genitori (nota Miur n. 19354 del 20/11/2018), secondo cui, prima di realizzare nelle scuole progetti su temi sensibili come l’educazione all’affettività, alla salute o l’educazione civica, è necessario il consenso informato dei genitori (o di chi ne fa le veci)”.



Il provvedimento va nella direzione di rafforzare l’alleanza tra scuola e famiglia, nel rispetto dell’articolo 30 della Costituzione, secondo cui è diritto e dovere dei genitori educare i propri figli.

Ora occorrerà capire in che modo il provvedimento – che ancora non è noto nei dettagli e di cui manca il testo – cambierà i percorsi sull’educazione sessuale già proposti nelle scuole. Ci sarà una maggiore tutela delle famiglie rispetto a possibili derive ideologiche legate alla teoria gender che, secondo alcuni, hanno motivato tale intervento?



Verrà probabilmente introdotto l’obbligo di un consenso scritto da parte delle famiglie per autorizzare la partecipazione ai corsi sull’educazione sessuale; non sarà più sufficiente una generica presentazione del progetto e l’approvazione da parte del consiglio di classe con la partecipazione dei genitori.

Occorrerà vigilare, perché nei fatti potrebbe continuare a verificarsi ciò che già oggi accade: è spesso molto difficile, per genitori e docenti, entrare nel merito di progetti che sulla carta vengono presentati con termini politicamente corretti e condivisibili, come “inclusione”, “educazione all’empatia”, “contrasto alla discriminazione di genere”, violenza di genere, rispetto per sé e per gli altri, diritti, “sessualità consapevole”. Dietro queste parole suadenti e asettiche si celano talvolta progetti con forti connotazioni ideologiche.



Spesso tali progetti sono accolti positivamente da genitori e scuole solo perché proposti da enti pubblici, come le AUSL locali, in collaborazione con associazioni. Vengono condotti da professionisti con competenze scientifiche o accademiche, come psicologi o medici – requisito che il ministro ha confermato anche per i corsi futuri – ma anche questi corsi, in alcuni casi, superano il limite della semplice educazione alla sessualità. Un esempio è il progetto “W l’amore” della Regione Emilia-Romagna.

Io stesso come docente ne ho fatto esperienza. Qualche anno fa, in una classe terza di scuola secondaria di primo grado, venne proposto un progetto sull’affettività realizzato dalla AUSL. Solo dopo un’attenta visione del materiale (richiesta preventivamente) mi accorsi che una delle schede prevedeva la spiegazione dettagliata di tutti i metodi contraccettivi, includendo anche le conseguenze sul piacere sessuale delle persone coinvolte. Evidentemente, un contenuto non adatto a ragazzi di 13 anni.

Tenendo presenti questi precedenti, è facile intuire cosa accadrà con il nuovo provvedimento: le famiglie che, legittimamente, ritengono che l’educazione sessuale debba spettare alla famiglia, ritireranno i propri figli dai corsi proposti dalla scuola, probabilmente tenendoli a casa, anche per evitare che si sentano ghettizzati o isolati rispetto a proposte alternative organizzate obbligatoriamente dalla scuola.

Comprendo e condivido la preoccupazione del ministro e il richiamo alla Costituzione, in nome dell’alleanza educativa tra scuola e famiglia. Tuttavia, occorre anche rendersi conto del contesto problematico in cui si muovono gli studenti. Una ragazza di 14 anni dovrà ottenere il consenso informato dei genitori per frequentare un corso sull’educazione sessuale, ma può assumere la pillola del giorno dopo senza doverli informare.

Allo stesso modo, risulta poco comprensibile che non sia prevista l’obbligatorietà di una materia alternativa all’insegnamento della religione cattolica – una disciplina non confessionale ma a carattere culturale, prevista dai programmi ministeriali –, così come appare ancora più grave che uno studente possa cambiare nome a scuola tramite la carriera alias, con una semplice autodichiarazione e senza il coinvolgimento della famiglia.

L’educazione è una questione complessa e di lungo termine. Le scelte devono investire tutto lo spettro del problema educativo, altrimenti si rischia di sfilacciare un tessuto normativo incoerente e già lacerato e soprattutto che concretamente non cambi nulla, se non l’aumento della burocrazia e dei contenziosi da parte di famiglie che non si sono sentite adeguatamente informate.

Nel frattempo, occorre che anche altre promesse vengano realizzate, come la parità educativa – “realizzare la piena parità tra scuola statale e paritaria” – e un intervento sulla carriera alias, definita giustamente nel programma della Lega come una “procedura che introduce il concetto di fluidità di genere e determina una palese forzatura giuridica”.

Questi interventi sarebbero in grado di determinare un reale cambiamento nella scuola, favorendo una maggiore libertà educativa, un miglioramento dell’offerta formativa e, come spesso ricordava Papa Francesco, un vero contrasto alla “colonizzazione ideologica” delle teorie gender.

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