Gli studenti non chiedono alla scuola di essere “compresi”, ma guardati sì. Servono adulti disposti a farsi carico di un’esigenza e di un cammino comuni
I media hanno molto amplificato la scelta da parte di alcuni (pochi) studenti di non effettuare l’esame orale alla prova di maturità per protestare contro il sistema di valutazione. Sono stato molto colpito anche dalla dichiarazione fatta da uno studente di Bologna al quotidiano La Stampa:
“E quando mai a 18 anni mi ricapita l’occasione di poter parlare davanti a sei, sette adulti, che stanno in silenzio ad ascoltarmi? Sinceramente del voto finale m’interessa davvero poco: per una volta vorrei semplicemente essere guardato. Non dico compreso – non pretendo troppo. Ma visto sì. Per quello che sono, e non per quello che vorrebbero che fossi”.
Due atteggiamenti di fronte alla stessa prova, apparentemente opposti, ma che, sotto alcuni aspetti, rivelano una chiara esigenza comune: che la scuola sia uno spazio di accoglienza, ascolto, condivisione, invece che uno spazio di misurazione e “giudizio”.
È un grido che spiazza, questo. Soprattutto se ascoltato con le orecchie di chi “la scuola la fa”, di chi nella scuola crede: come è possibile che qualcuno non si senta ascoltato proprio a scuola? Proprio nel luogo in cui, per mestiere, ci sono adulti al servizio dei giovani, al servizio della loro crescita, della loro curiosità, della loro voglia e del loro bisogno di conoscere, scoprire, imparare il mondo e se stessi?
Sono dichiarazioni che, se prese sul serio, non possono non interrogare il mondo degli adulti.
In molti si sono espressi con valutazioni e considerazioni molto interessanti (ad esempio quelle di Alberto Pellai o di Alessandro D’Avenia sulle loro pagine Facebook). Io mi limito a raccontare quello che ho visto succedere nella scuola di cui da un anno sono preside.
Il primo giorno di scuola ho accolto tutti gli studenti in un’assemblea plenaria in cui, d’accordo con il collegio docenti, ci siamo permessi di raccogliere la sfida lanciata da una loro giovane compagna, tragicamente scomparsa nel corso del precedente anno scolastico, vinta da una terribile malattia.
Martina, proprio durante il periodo più duro della sua vita, ha fatto una scoperta enorme, e l’ha comunicata così ai suoi amici via WhatsApp: “Prima della malattia dicevo: ‘Che palle la scuola’, ora dico: ‘Che bello, che fortuna andare a scuola. Non vi rendete conto’”. La sfida che abbiamo raccolto e lanciato ai nostri studenti è stata proprio questa: “Di cosa non ci rendiamo conto? Qual è la fortuna di venire a scuola?”
A loro dicevo: siete fortunati perché, qui, a scuola, in questa scuola, la vostra domanda di senso è importante. Le domande di senso sulla realtà sono prese sul serio. I vostri professori, se sono qui, è perché sono interessati al vostro contributo nell’avventura della conoscenza della realtà. Studiare è capire la realtà, scoprirne il senso, scoprire cioè il nesso tra tutte le cose, e soprattutto il nesso tra noi e tutta la realtà.
Questa ricerca di scoperta e di senso mette insieme, crea una comunità di apprendimento. Comunità, infatti, deriva dal latino communio, che significa condividere (cum) un dono (munus): questo dono è proprio la ricerca e la scoperta del significato della realtà.
Per questo la scuola è un’avventura che mette insieme e che può vincere anche la solitudine. Diventiamo, come dicono i pedagogisti, una comunità educante perché siamo insieme alla ricerca dei significati!
Alla fine dell’anno abbiamo fatto una seconda assemblea in cui gli studenti sono stati chiamati a raccontare cosa avessero scoperto su questo tema nel corso dell’anno.
Certo, non sono intervenuti tutti, e forse chi aveva qualche lamentela non ha avuto il coraggio di esprimerla; ma le molte testimonianze che abbiamo raccolto dicono qualcosa di diverso da quello che potrebbe essere un pur giustificato lamento: dicono di un cammino iniziato, del gusto di un cammino fatto insieme alla scoperta di sé e del mondo.
Ve ne riporto alcune, solo per dare a tutti il senso non solo di una scuola reale, ma di una scuola possibile, per ciascuno.
“Quest’anno ho capito che venire a scuola è una fortuna, soprattutto grazie ad alcuni insegnanti che mi hanno fatto sentire accolta e ascoltata e con i quali ho avuto la possibilità di raccontarmi. Ho scoperto di avere più determinazione di quanto pensassi e che, anche se faccio fatica, posso superare gli ostacoli se mi impegno davvero. In questi cinque lunghi anni mi sono vista crescere e cambiare: sono diventata più consapevole di me stessa e del modo in cui affronto le difficoltà e la realtà”.
“La parola che meglio riassume quest’anno è forse crescita. Quest’anno, come tutti gli altri, è stata una sfida: tra verifiche, interrogazioni e tutte le difficoltà che la scuola contempla. Eppure, forse per la prima volta in diversi anni, questa fatica non è sembrata vana, anzi, ne percepisco i frutti. Questa crescita non è solo a livello scolastico, ma anche a livello personale, perché alla fine, a scuola, si impara anche a vivere”.
“Per me, quest’anno, venire a scuola è stata davvero una fortuna. Sento di averlo vissuto a pieno, di essere stato parte attiva della scuola. Per la prima volta in questi anni, ho capito che la scuola non è solo studiare, ma anche amici, relazioni, contatto. Viverla così non ha prezzo, viverla con gli amici e con i prof. è la cosa più bella. (…) Grazie a questa nuova visione della scuola credo di essere cresciuto tantissimo, sia a livello personale che nel gruppo. Mi sento più consapevole delle mie scelte e più protagonista della mia vita. Certo, le difficoltà ci sono state, è innegabile, ma essere riuscito a condividerne il peso è stato fondamentale”.
“Posso affermare con assoluta certezza che questo sia stato il più bell’anno mai trascorso al ****. Sono in terza, quindi perfettamente a metà del mio percorso liceale, e ancora non so cosa mi riserverà il futuro. (…) Per quanto riguarda lo studio, credo che finora il programma di terza sia stato il più bello dei tre anni, forse merito anche dei docenti che mi hanno fatto amare ogni singolo argomento. Se quest’anno è stato così bello, ho desiderio di scoprire quanto lo sarà il prossimo”.
“Questi sono i miei ultimi giorni di scuola, e fa davvero strano dirlo ad alta voce. (…) Sono entrata in questa scuola nel 2020, nel pieno del Covid. Mascherine, gel igienizzante, distanze. Insomma, lo ricordate tutti. I miei compagni erano solo voce e sguardi. Poi, però, ci siamo ritrovati di colpo a crescere. (…) Quest’anno, in particolare, è stato duro.
Lo studio si è fatto pesante, il tempo non bastava mai. Ho pianto per la maturità che si avvicinava, per la scelta universitaria che sembrava troppo grande per me, per la patente che temevo di non superare. Ho pianto anche per le interrogazioni di tedesco. Ma alla fine, ogni cosa è passata. Non sono mai stata così distrutta e allo stesso tempo soddisfatta. (…)
Soprattutto ho capito una cosa importante: da soli si fa molta più fatica. Ecco, forse la Marti, quando dice ‘che fortuna andare a scuola’, non parla delle verifiche, né delle sveglie all’alba, o almeno non solo, ma delle persone. Alcune so bene che non le rivedrò più dopo l’esame, ed è giusto così. Altre resteranno per la vita. Ma tutte hanno avuto un impatto su di me. I miei compagni, a modo loro, mi hanno spinta a cambiare. Alcuni professori sono stati incisivi.
Persino alcuni rapporti con ragazzi di altre classi sono stati importanti, perché se pensavo di crollare, uno sguardo tra i corridoi (o più facilmente nei bagni) mi tirava su. Perciò, secondo me, voi che l’anno prossimo sarete ancora tra i corridoi di questa scuola: vivetela. Trovate le persone giuste e seguitele. Alzate mille volte la mano, anche se vi trema. Mettetevi in gioco, senza aspettare di essere ‘pronti’, perché tanto vi assicuro che pronti non lo sarete mai”.
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