Il recente articolo di Luisa Ribolzi sui limiti dell’esame di Stato è un ottimo punto di partenza, pienamente condivisibile da chi ha sulle spalle qualche decina di esami di Stato. Non è forse tempo di cambiare passo e il fatto che l’attuale Governo abbia una prospettiva di medio lungo termine non potrebbe dare l’opportunità di una riforma concreta in un ripensamento globale sia della sua funzione sia della struttura e inevitabilmente della normativa? Due sono fondamentalmente le categorie di chi ancora sostiene il senso di questo esame, anche fra i lettori del Sussidiario. La prima è costituita da chi, avanti negli anni, accademico o professionista che sia, ne ricorda ancora la suggestione, il fascino.
Incubo o successo che sia stato, si è trattato di un passaggio importante della propria vita, a cui si guarda con reverente nostalgia e che si ritiene possa costituire anche per i nostri giovani uno step imprescindibile all’età adulta. Il secondo gruppo di sostenitori dell’attuale impianto è formato da quei pochi che hanno ancora la fortuna (o la grazia) di vivere esperienze di scuole realmente significative nelle quali l’esame può essere un reale percorso formativo sia per i giovani che per gli adulti, una seria provocazione alle energie intellettuali ed emotive, mobilitate non al semplice superamento della prova in una performance ambiziosa e stressante, ma una tappa della vita in cui maestri appassionati possano allenare tutte le energie del giovane chiamato a muoversi in una prospettiva serena e sfidante di apertura alla realtà, tesa a consentire al maturando di verificare dove orientare (volgere lo sguardo a Oriente) il proprio futuro.
Ai primi suggerisco di riconoscere come, per tanti motivi, che qui cercherò di dettagliare, questa prospettiva sia ormai parzialmente anacronistica. Ai secondi consiglio altresì di acquisire consapevolezza che questa esperienza, per quanto ancora sperimentabile, sia davvero di pochi e di chiedersi pertanto se valga la pena sostenere tutta la “macchina” quando questi pochi forse potrebbero trovare comunque delle strade per continuare a fare esperienze delle buone prassi in forme diverse.
Perché è il momento di cambiare strada? In primis perché la macchina è costosissima in tutti i sensi, economici, organizzativi, emotivi. Il denaro potrebbe essere investito in attività di accompagnamento estivo di cui, soprattutto nelle zone più in sofferenza del Paese, c’è enorme bisogno. Accenno solo al tema del recupero dei debiti e dei ragazzi per strada per 80 giorni continuativi. Continuiamo ad essere indifferenti alle migliori pratiche degli altri Paesi? Quindi: primo aspetto, la Maturità sottrae fondi ed energie essenziali alla scuola superiore.
Seconda questione, ampiamente affrontata da Ribolzi: nel 2023 siamo proprio sicuri che dal punto di vista psicologico-emotivo-affettivo i nostri 19enni abbiano bisogno di un tale rito di passaggio? Tra i liceali la maggior parte ha già affrontato test universitari, in Italia e all’estero e non attende che di partire. Talora anche i calendari delle università straniere si intrecciano con i nostri esami, creando ulteriore scompiglio.
D’altra parte gli studenti che non intendono proseguire gli studi sono già in una prospettiva molto operativa, professionalizzante, per loro l’esame davanti a una Commissione ha davvero ormai poco o nulla di significativo. Veniamo ad aspetti più tecnici. Dopo alcuni anni in cui in epoca Covid era il solo presidente il membro esterno, ci si è ritrovati in una apparente condizione più equa (tre commissari esterni, un presidente esterno e tre docenti interni)
Apparentemente il massimo dell’equità, in realtà una convivenza forzata di persone che vengono da storie, da esperienze culturali e formative estremamente diverse, forzatamente costrette a condividere per una ventina di giorni un rito molto faticoso e affatto efficace in termini di selezione. Nella maggior parte degli istituti gli ammessi sfiorano “percentuali bulgare” e spesso, anche di fronte a candidati palesemente impreparati, la macchina valutativa ostacola una oggettiva selezione, insomma è un “fuori tutti”. Solo in pochissimi istituti gli scrutini di ammissione costituiscono ancora uno strumento di selezione.
Generazione Covid, paura di incrementare forme depressive più o meno latenti, un codice deontologico oppresso da un clima feroce all’esterno hanno prodotto questa scelta di ammissione di massa. Veniamo alle prove scritte: sui titoli molto è stato scritto, da coloro che sanno scrivere, appunto; gli elaborati che abbiamo letto solo raramente ci hanno permesso di paragonarci a competenze espressive ed argomentative di livello, ai più è stato dato di leggere molti luoghi comuni e tanti errori ortografici (senza il correttore del pc, chi scrive correttamente ormai?).
Procediamo: le seconde prove, quelle di indirizzo, troppo eterogenee, alcune durano giorni, altre un’intera giornata, iper tecniche e molto impegnative, altre molto di superficie e consegnate dopo poco più di tre ore. Veniamo all’orale, i sette docenti di cui si è accennato all’inizio si trovano a dover gestire in un’oretta una valutazione che, nella maggior parte dei casi è il risultato di un monologo dello studente su un argomento scelto sì dalla Commissione, ma molto più simile a un tema da scuola dell’obbligo, lontanissimo dal “capolavoro” di cui ci sarebbe bisogno per giudicare la maturità dello studente.
Nonostante l’impegno del legislatore, inoltre, la riflessione sul percorso Pcto (l’ex alternanza scuola-lavoro), sull’educazione civica e sul curriculum dello studente, che costituirebbero parte essenziale dell’orale, il colloquio continua ad essere quello che è stato negli ultimi anni: un generico soliloquio, spesso motivo di conflitto della Commissione nel post esame per qualche punto di valutazione o peggio per l’eventualità che la banalità del soliloquio stesso possa preludere alla bocciatura. Non sia mai, quel “fuori tutti” impera.
Uno dei vulnus più clamorosi è che, tra l’altro, la valutazione debba essere effettuata al termine di ogni giornata e non ci sia quindi la possibilità di una valutazione più approfondita, una volta esaminata l’intera classe. Quindi? qualche suggerimento: prove di Istituto serie, complesse, realmente capaci di sfidare l’intelligenza dei ragazzi, tenendo conto sia degli standard nazionali che del progetto di Istituto; valorizzazione delle prove Invalsi e loro valutazione entro la fine d’anno scolastico, colloquio con autentica tesina costruita con responsabilità e originalità dall’esaminando di fronte a una Commissione Interna (forse con un presidente esterno?) integrata seriamente da valutazione Pcto e curriculum.
Il tutto concluso entro la fine del mese di giugno, poi tutti impegnati fino al 15 luglio per garantire le attività di recupero e anche un calendario un po’ più simile a sistemi europei, a cui troppo spesso guardiamo con stima, per poi voltar loro le spalle quando ci solleciterebbero a innovazioni troppo impegnative.
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