Tradizionalmente la scuola italiana ha posto al centro del progetto didattico l’eruditismo, consentendo per lungo tempo la formazione di una classe dirigente preparata e capace; mediante la programmazione didattica ministeriale ha stabilito le tematiche da trattare per fondare l’identità del cittadino italiano (risorgimentale prima, fascista poi, democratica infine).
Quando l’offerta didattica si è ampliata attraverso l’istituzione della scuola media unica nel 1963 è parso evidente come il sistema educativo mostrasse seri limiti (don Milani lo aveva intuito già nel 1954 fondando la scuola di Barbiana, così come nello stesso anno don Giussani dava vita al metodo educativo come introduzione alla realtà durante le sue lezioni al Liceo Berchet di Milano).
A cavallo tra gli ultimi anni del XX secolo e il decennio successivo, di fronte al fallimentare approccio di una didattica nozionistica che pretendeva di riempire le teste degli studenti, si è affermata una nuova attenzione alla persona, al suo individuale modo di apprendere, alla relazione e alla capacità di interagire con i dati appresi più che alla quantità degli apprendimenti. Con la legge sull’autonomia scolastica, la conseguente istituzione del Pof (1999), poi divenuto Ptof (2015), e l’introduzione della didattica per competenze (legge 169/2008 e decreto legislativo 59/2004 impongono si rilasci allo studente la certificazione delle competenze al termine della scuola primaria e secondaria di primo grado) si è imposto un mutamento importante, teso a rendere l’insegnamento più elastico e vicino alle necessità contingenti.
Lo stile standardizzato, volto al passaggio meccanico delle nozioni da docente a discente, sta lasciando il posto a una rinnovata attenzione per lo studente e per la sua particolare condizione di apprendimento, finalizzata all’utilizzo delle nozioni anche nella vita reale (competenze), liberando percorsi e tematiche affrontate in classe con le programmazioni di materia in sostituzione del programma ministeriale.
Sulla scia di studi prodotti in area anglosassone, per lo più nati nel campo dell’economia e del lavoro, si è fatto avanti nella scuola anche il concetto di skills, che sono caratteristiche della personalità che riguardano la sfera emotiva e psicosociale: abilità, atteggiamenti, attitudini e virtù – non necessariamente di tipo cognitivo – che risultano decisive per lo sviluppo della persona e in particolare per la sua introduzione nel mondo del lavoro (flessibilità, estroversione, creatività, apertura mentale, interazione, stabilità emotiva). Secondo questi studi chi è dotato o progredisce in tali attitudini percorre traiettorie di carriera lavorativa migliori, diminuisce la possibilità di assumere comportamenti deviati e vive in modo positivo le relazioni sociali, quindi diventa un adulto più facilmente realizzato che contribuisce al bene della comunità.
Sembra che la traiettoria che vive la scuola italiana oggi, sulla scia delle ricerche internazionali e anglosassoni in particolare, porti a spostare l’attenzione dal campo meramente tecnico e nozionistico dell’apprendimento didattico a una visione più ampia della persona e delle sue relazioni.
Questo mutamento deve essere guardato con interesse, poiché originato da una crisi reale del sistema scolastico (educativo in generale) che risulta sempre più fallimentare. Da anni i dati sulla dispersione scolastica (ritardo o abbandono degli studi) italiana sono inclementi: secondo Eurostat 2021, il 12,7% dei giovani tra i 18 e i 24 anni (in leggero miglioramento rispetto agli anni precedenti) ha abbandonato precocemente la scuola fermandosi alla licenza media, quando il valore europeo è di 9,7%.
Non solo i dati sulle performance scolastiche ma, seppure più complicato da quantificare, anche il disamore di chi frequenta la scuola pare diffondersi rapidamente insieme alla percezione che educazione e preparazione didattica non siano tra loro legate organicamente (un esempio sono le ricorrenti notizie sulla violenza giovanile), cosicché il Parlamento, per contribuire alla formazione di cittadini attivi, nel 2021 ha introdotto l’educazione civica in tutti i livelli scolastici con un ampio consenso politico e sociale, a testimoniare la diffusa percezione del disastro educativo della nostra società che la scuola dovrebbe riuscire o almeno tentare di contrastare.
Dunque il tema che va ponendosi risulta interessante, perché al fondo cerca di rispondere in modo costruttivo alla domanda: la scuola serve a rendere migliore lo studente (il cittadino) perciò l’uomo? E quindi la domanda reale è: a cosa serve la scuola?
Pier Paolo Pasolini era convinto che la scuola fosse un luogo educativamente dannoso, infatti nel 1975 scriveva in modo provocatorio sul Corriere della Sera: “La scuola dell’obbligo è una scuola di iniziazione alle qualità della vita piccolo borghese: vi si insegnano delle cose inutili, stupide, false, moralistiche, anche nei casi migliori (cioè quando si invita adulatoriamente ad applicare la falsa democraticità dell’autogestione, del decentramento, ecc… tutto un imbroglio)”. […] “Era in cui dei giovani insieme presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e insieme dell’irraggiungibilità dei modelli proposti loro dalla scuola e dalla televisione tendono inarrestabilmente ad essere o aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino all’infelicità (che non è una colpa minore). (Pier Paolo Pasolini, Corriere della Sera, 18 ottobre 1975, in Lettere luterane, Einaudi, Torino, 1976, pagine 169-170).
(1 – continua)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.