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Home » Lavoro » Giovani, Famiglia e Lavoro » SCUOLA E LAVORO/ ITS, gli spunti utili dai modelli di Lombardia, Umbria e Veneto

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SCUOLA E LAVORO/ ITS, gli spunti utili dai modelli di Lombardia, Umbria e Veneto

Può essere utile guardare a tre validi sistemi regionali ITS per trarre degli utili spunti per immaginare un possibile modello futuri

Giorgio Spanevello
Pubblicato 13 Ottobre 2021
automazione_robot_lavoro_formazione_lapresse_2017

(LaPresse)

Sin dall’inizio della loro storia, gli ITS sono stati, in virtù della loro natura di fondazioni inserite in un sistema statale, ma coordinate organizzativamente dalle regioni, un banco di prova di modelli diversi, solo in parte derivati da peculiarità territoriali. Si è assistito in questo modo, a una crescita che ha portato a realtà profondamente diverse regione per regione.


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In un momento nel quale la nuova legge in approvazione al Senato istituzionalizza e rende stabile il sistema di istruzione terziaria professionalizzante sembra opportuno ripensare all’organizzazione territoriale per trovare una formula vincente di crescita del settore. Porto ad esempio come rappresentativi, senza voler sminuire le esperienze molto positive di altre regioni, tre modelli regionali corrispondenti ad aree di grande sviluppo del sistema ITS, per raccontare come la diversità del modello abbia portato comunque a risultati positivi, ma in parte potrà essere oggetto di discussione nello sviluppo futuro. Quelle considerate sono regioni nelle quali i competenti Assessorati supportano le fondazioni ITS in modo eccellente e promuovono costantemente la loro crescita. Le tre regioni analizzate sono la Lombardia, l’Umbria e il Veneto.


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Lombardia. La regione indiscutibilmente più industrializzata d’Italia ha visto partire l’esperienza ITS in un contesto dotato di una robusta rete di centri di formazione professionale regionale che ha consentito, nella gran parte dei casi, di iniziare la nuova esperienza utilizzando le strutture e personale degli stessi. La scelta politica è stata quella di lasciare aperta la possibilità di aprire fondazioni a chi poteva dimostrare di essere attrezzato a farlo. Il risultato è che si sono costituite un numero elevato fondazioni, con la possibilità per ciascuna di esse di organizzare corsi anche in aree tecnologiche diverse e comunque a volte con qualche sovrapposizione territoriale. Oggi sono venti le fondazioni lombarde, con l’aggiunta di due fondazioni da fuori regione che operano anche in Lombardia.


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Il modello di prevedere molte fondazioni diffuse sul territorio ha avuto il pregio di consentire una rapida diffusione dei corsi, ma d’altra parte considerata la struttura necessaria a gestire una fondazione di partecipazione, ha moltiplicato gli organi di gestione e le risorse di personale dedicato, non consentendo economie di scala rispetto a un sistema meno dispersivo. La tendenza alla moltiplicazione delle fondazioni sembra proseguire anche oggi con la nascita negli ultimi giorni di tre nuove fondazioni ITS.

A livello qualitativo i corsi sono stati ben condotti, con grande partecipazione della componente aziendale e risultati di occupabilità eccellenti.

Umbria. Diametralmente opposto il modello proposto dalla regione Umbria, con un’unica fondazione ITS che opera su tutto il territorio regionale erogando corsi in tutte le aree tecnologiche richieste dal tessuto produttivo della zona, con attività dislocate in diversi centri della regione. Una sorta di struttura politecnica destinata però a servire un’area di territorio limitata (la superficie umbra è meno di un decimo di quella lombarda e la popolazione ha un rapporto simile) e un sistema industriale avanzato, ma non paragonabile nei numeri a quello delle regioni del Nord. La scelta della regione umbra ha molti buoni elementi: unica struttura e governance, economie di scala sulla gestione generale, assenza di competizione e sovrapposizioni di offerta formativa. I risultati anche in questo caso sono eccellenti, ma chiaramente, visto il contesto, limitati nel numero di studenti formati.

Veneto. Diversamente dalla Lombardia, pur innestato in un sistema industriale e di formazione simili, il modello veneto è stato preordinato a tavolino con la costituzione iniziale di una sola fondazione per area tecnologica. Si è partiti così nel 2011 con sei fondazioni legate inizialmente a scuole superiori statali (ITIS), che nel corso degli anni hanno acquistato un’identità e autonomia via via crescenti e hanno aperto corsi distribuiti su tutto il territorio regionale, ognuna occupandosi di uno specifico settore tecnologico. Al momento attuale le fondazioni venete erogano più di 50 corsi all’anno diplomando annualmente circa un migliaio di Tecnici Superiori. Le fondazioni, anche qui supportate da regione, enti locali, aziende, associazioni datoriali e scuole pubbliche e private sono cresciute e si sono strutturate seguendo la domanda pressante di tecnici proveniente dal sistema produttivo e dei servizi.

Il tutto sembra garantire un giusto equilibrio tra numero di fondazioni e corsi erogati con economie di scala e relativa flessibilità operativa. I risultati di occupazione vedono una media regionale attorno al 90% a un anno dal diploma contro una media nazionale dell’80% e una qualità della formazione testimoniata ogni anno da posizioni di rilievo nel ranking Indire.

Un possibile modello futuro. Come possibile modello di sviluppo, si potrebbe ipotizzare un’organizzazione basata su Academy politecniche di territorio, una sorta di Istituti simili agli IUT francesi, ma con la sostanziale differenza del mantenimento dell’indipendenza dal sistema accademico. Il territorio potrebbe essere quello corrispondente a una provincia, sufficientemente ampio per assicurare una buona base demografica, ma al contempo espressione di una realtà locale caratterizzata da sistemi produttivi e di servizi. Avremmo quindi fondazioni molto simili a quella umbra descritta poc’anzi, in grado di garantire flessibilità di gestione e ottimizzazione dell’offerta formativa pur svariando in aree tecnologiche differenti. Si eviterebbe inoltre il proliferare di nuove fondazioni, potendo aumentare il numero di corsi a seconda delle richieste del territorio.

È chiaro però che l’auspicata adozione di un sistema organizzativo comune, qualsiasi esso sia, dovrà passare attraverso un accordo di tutte le regioni e attualmente non ci sono elementi che facciano pensare che ciò possa accadere. Sembra di poter concludere che l’importante a oggi è che l’istruzione terziaria professionalizzante mantenga i livelli qualitativi attuali aumentando però molto il numero degli iscritti andando così a rispondere all’enorme carenza di tecnici specializzati nelle nostre aziende. Questo vuol dire aumentare il numero dei corsi, ma per ovvie ragioni di opportunità, non quello delle fondazioni.


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