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Home » Educazione » SCUOLA/ E se fossero i consigli di istituto a “governare” le scuole?

  • Educazione
  • Scuole Superiori
  • Riforme scolastiche

SCUOLA/ E se fossero i consigli di istituto a “governare” le scuole?

Alessandro Artini
Pubblicato 6 Marzo 2025
Valditara, MIM

Giuseppe Valditara, Ministro dell'Istruzione e del Merito (ANSA 2024, Matteo Bazzi)

La riforma del 4+2, a cominciare dalle adesioni, innesca problemi di ampia portata il cui punto cruciale è la riforma della governance delle scuole

Che ricadute hanno le decisioni che prendono le scuole? Che conseguenze ha, ad esempio, l’adozione o meno della riforma del “4+2”, che consente di ridurre di un anno il tradizionale percorso quinquennale degli studi tecnici e professionali?

Ogni scelta che influenzi il sistema scolastico ha delle ripercussioni che sono di natura sociale ed economica. Anche politica, precisando che quest’ultima, tuttavia, pertiene alla dimensione educativa ed è intesa in senso alto, come interesse generale.


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Se, ad esempio, volessimo individuare le correlazioni tra i progressi educativi e l’aumento della ricchezza di una nazione, non c’è che da prestare attenzione alla vasta letteratura scientifica prodotta dagli economisti e dagli scienziati sociali. Per chi volesse documentarsi in maniera più approfondita, suggeriremmo di dedicarsi al concetto di “capitale umano”, definito da Gary Becker, premio Nobel per l’economia o, restando nei confini nazionali, ai saggi dell’ex Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco.


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Se volessimo, inoltre, dei riferimenti più attuali, suggerirei la lettura dell’ultimo saggio di Pier Giorgio Ardeni, accademico bolognese, che ha focalizzato lo studio delle classi sociali, riprendendo coraggiosamente in esame il celebre saggio di cinquant’anni fa di Paolo Sylos Labini.

Ardeni evidenzia come le classi, considerate qualche tempo fa in via di estinzione (occultate dalla formidabile crescita del ceto medio), oggi siano ricomparse in forma esacerbata, stabilmente e visibilmente, dopo decenni di andamento carsico. Esse frantumano la società con una serie di diseguaglianze che, mentre premiano i vertici sociali di ricchezza e potere, sono altresì foriere, per altri gruppi sociali, di acuti disagi e dolenti povertà.


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Tutto ciò ha a che fare con l’istruzione, o con la sua carenza, e si tratta di fenditure sociali relative alle opportunità individuali e alla mobilità sociale. In sostanza, le scelte educative influenzano fortemente le dimensioni economico-sociali e politiche che trascendono di gran lunga l’ambito scolastico e influenzano la vita individuale e collettiva.

Nel caso della riforma del “4+2”, la riduzione di un anno del tradizionale corso di studi riverbera effetti di vasto raggio, perché comporta l’entrata di molti giovani nel mercato del lavoro un anno prima di quanto avviene oggi. Inoltre quel “+2”, cioè la prosecuzione di due anni presso gli ITS Academy, istituti superiori fortemente professionalizzanti, che offrono un tipo di educazione connotata in senso pratico e laboratoriale, avrà senz’altro importanti effetti – benèfici, dal nostro punto di vista – sul piano lavorativo e per il mercato del lavoro. Dunque è chiaro che sussiste un rapporto tra il mondo educativo e la dimensione più generale dell’intera società. Ma, a questo punto, occorre porre una domanda fondamentale e cioè a chi appartengono – o dovrebbero appartenere – le decisioni educative? Alle singole scuole o alle comunità che le ospitano?

Una tale domanda nasce oggi dalla necessità di definire nuovi rapporti tra le molteplici autonomie (comprendendo quelle, per ora prospettate, di livello regionale) e le competenze centrali dello Stato. Il dibattito – com’è noto – trascende la scuola e trae fondamento anche dallo scaricabarile tra regioni e Stato durante la pandemia. Certamente quell’equilibrio (o disequilibrio) va rivisto perché la riforma del Titolo V della Costituzione introdotta nel 2001 manifesta inefficienze e malfunzionamenti.

Tuttavia la revisione del rapporto tra autonomie e Stato non può consistere nella riedizione delle vecchie prospettive centrate sul ruolo di quest’ultimo, così come, nella scuola, non è opportuno tornare al centralismo ministeriale che precedeva il varo, a inizio millennio, dell’autonomia scolastica. Non dovremmo riproporre la “cultura delle circolari” (peraltro mai venuta del tutto meno), perché questo deresponsabilizzerebbe le scuole, affidando allo Stato alcune competenze decisionali che invece possono essere – anche in un’ottica di sussidiarietà – affidate alle singole istituzioni scolastiche.

Dunque la risposta alla domanda è che la decisione debba competere alle scuole. Tuttavia, proprio perché essa ha, sì, una natura educativa, ma contestualmente più generale, dovrebbe prevedere un cambiamento di governance nelle scuole stesse. Essa sarebbe dovuta spettare, a nostro avviso, all’organo scolastico che meglio rappresenta le istanze esterne alla scuola e cioè al consiglio di istituto.

Solamente quest’ultimo, infatti, comprende le componenti dei genitori e degli alunni (nelle scuole superiori) oltre a quella dei docenti e del personale amministrativo. Solo quest’organo, dunque, ha una rappresentanza più generale e complessiva, che può rimandare a quella dimensione di interessi che riguarda la società civile.

Al collegio dei docenti, invece, dovrebbero competere solo le scelte didattiche, cioè come fare a sviluppare determinati progetti, non certamente se adottarli oppure no. I collegi dovrebbero deliberare in merito all’implementazione dei percorsi didattici, non al loro accoglimento o respingimento. È evidente, infatti, che la scelta se attuare o non attuare progetti come il “4+2” confligge con alcuni interessi sindacali (i posti di lavoro, un eventuale maggior impegno dei singoli insegnanti a fronte delle novità, e altro ancora).

Una tale scelta, dunque, non può essere affidata sostanzialmente ai soli docenti della scuola, come avviene adesso, proprio per la sua generale valenza e per evitare il conflitto di interessi che scaturisce dalla forte sindacalizzazione.

A questo punto, tuttavia, tornando al merito della riforma in questione, è opportuno considerare che solo un quarto delle scuole italiane ha aderito al “4+2”. Il ministro Valditara, istituzionalmente versato al “mezzopienismo”, ha esultato a fronte del recente aumento delle scuole che hanno fatto propria la riforma, rispetto a quelle dello scorso anno (ed è vero che c’è stato un incremento ragguardevole), ma resta il fatto che tre quarti delle scuole italiane non hanno aderito, cioè hanno registrato, al loro interno, la ferma opposizione dei collegi dei docenti, che paventavano sindacalmente il calo dei posti di lavoro per la riduzione del quinquennio a quadriennio.

Ciò posto, come intende il ministro Valditara in futuro fronteggiare l’opposizione sindacale dei collegi dei docenti? Probabilmente cercherà di rendere ordinamentale la riforma del “4+2”, affidandosi al Parlamento, nella prospettiva di statuirla istituzionalmente. Questa strada, senz’altro praticabile, ha tuttavia il torto di riproporre, sul piano scolastico, la precedente architettura étatiste, attribuendo sostanzialmente al ministero i poteri decisionali.

L’altra strada, invece, quella cioè di riformare la governance delle istituzioni scolastiche, perseguendo la logica di affidare al consiglio di istituto i principali compiti di governo della scuola, arricchirebbe l’autonomia scolastica, attuando contestualmente un principio di sussidiarietà.

L’Associazione nazionale presidi (ANP) della Toscana, lo scorso anno, in occasione della cinquantesima ricorrenza dal varo dei decreti delegati del 1974, ha posto – nel contesto di un convegno fiorentino – il problema della obsolescenza di quella normativa, inadatta al governo attuale delle scuole. Riformarla, tuttavia, richiede lungimiranza e coraggio, qualità molto rare.

 

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Tags: Giuseppe Valditara

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