SCUOLA/ “Educazione alle relazioni”, una trappola degna di Orwell e 1984
L'ennesimo progetto di "educazione alle relazioni" a scuola è solo un cavallo di Troia dell'ideologia dominante. Perché il Governo si presta?
Quando la scuola funge da cinghia di trasmissione dell’ideologia dominante, combina solo guai. Oggi con la vicenda dei femminicidi, ieri con la patria, la razza e la lotta di classe. Per non dimenticare Gentile e Gramsci che volevano la scuola come la fucina di modelli antropologici da diffondere nella società, lontanissimi dalla cultura popolare, contadino-cattolica, dell’Italia otto-novecentesca. Il caso della tragica morte di Giulia Cecchettin non ne è esente. Il ministro Valditara, assieme ai colleghi Roccella e Sangiuliano, ha presentato ieri per le superiori un nuovo progetto chiamato “educazione alle relazioni” sviluppata, pare, su 30 ore in orario extrascolastico e l’istituzione di uno psicologo di zona. Un approccio che ricorda Orwell di 1984, secondo cui lo Stato (gli studiosi lo definiscono etico) è autorizzato a intervenire nella dimensione interiore, e per educare i cittadini usa la scuola.
Ma poniamo a noi stessi e rivolgiamo ai ministri proponenti alcune domande.
Quali sono le buone relazioni, quale la buona affettività? Non c’è una risposta univoca, perché apparteniamo a una società plurale. A parte il rispetto del codice civile e soprattutto di quello penale, è universalmente noto che non esiste un criterio unico, per cui l’ambito interpersonale è frutto della visione umana e culturale, che si acquisisce in famiglia (o nell’ambito educativo di origine) e che poi diviene patrimonio etico-morale della coscienza di ciascuno. Per questo solo la famiglia è legittimata a far scegliere i valori di riferimento, non lo Stato, non la scuola.
Poi c’è da chiedersi a quale cultura sarebbe necessario riferirsi nelle lezioni del progetto ministeriale. Un approccio moderato e laico, si potrebbe rispondere. In molte scuole, sull’onda di altri gravi fatti di cronaca, si stanno già realizzando corsi (spesso in orario scolastico con esperti di varia natura) sull’affettività e sono ispirati al politicamente corretto, che, come è noto, è inclusivo e non discriminante. Lungo la penisola risuonano così parole come “amore è amore”, “due madri sono meglio di una”, e non vengono dimenticate, né la cultura gender, né quella LGBTQ. La proliferazione delle “carriere alias” in tantissimi istituti statali è la dimostrazione che sia l’educazione sessuale, sia il progetto ministeriale sulle relazioni verrebbero ispirati a precisi modelli culturali liberal-progressisti. In fondo non dobbiamo lottare tutti contro il “patriarcato”, il neologismo di questi giorni che anima le piazze, anzi i social, come la “rivoluzione” dettava legge nel ’68?
Qual è allora il compito della scuola? Forse è banale dirlo e in molti, nei talk show alla moda, al ministero dell’Istruzione e del Merito o in Parlamento sembrano affetti da disturbi della memoria. Non c’è scoop: in classe si studia. Si studia per formarsi un giudizio critico, una sorta di bagaglio personale fatto di conoscenze, competenze e criteri etico-morali che orientino nella vita adulta e diano una preparazione per il futuro. Demiurgo di questo percorso è il docente, il prof o la prof, come dicono oggi gli studenti, che mentre insegna, educa.
Sono ancora la maggior parte coloro che sanno trasmettere saperi più alti rispetto alla mera informazione. Hanno la possibilità e l’autorevolezza, una volta conquistata, di formare i loro alunni, di aiutarli a essere uomini e donne equilibrati e consapevoli. Se ad esempio parlano di Renzo e Lucia, del loro amore impossibile in un tempo di signorotti arroganti e violenti, oppure del modello di famiglia sbagliato che racconta la dolorosa vicenda di Gertrude, faranno il loro mestiere proponendo criteri e valori ai loro giovani allievi ed esercitando allo stesso tempo la libertà di insegnamento costituzionalmente riconosciuta.
La lista è infinita e solo per citare alcuni esempi della letteratura (anche molte discipline possono essere coinvolte), potremmo, a partire dalla Beatrice dantesca (con tutti gli esempi contenuti nella Commedia) passare per le figure femminili di Boccaccio, sino alle eroine del Romanticismo, per approdare a Madame Bovary di Flaubert, ad Anna Karenina di Tolstoj o ad Augusta, la salda moglie di Zeno Cosini, il protagonista del capolavoro di Svevo.
Considerare la scuola come l’ospedale della società, come si è fatto negli ultimi trent’anni, sembra estremamente negativo. Con questa logica abbiamo avuto l’educazione alla salute, all’alimentazione, alla legalità, alle dipendenze (di tutti i tipi, dalle sostanze ai social) e poi centinaia di progetti curati da una pluralità di soggetti, spesso poco adatti a operare nell’ambiente scolastico. Accade un grosso incidente automobilistico? Se ne occupi la scuola con l’educazione stradale. Le stragi del sabato sera? Se ne discuta a scuola. Alcolismo, bullismo, cittadinanza, riciclo dei rifiuti e quant’altro, se ne deve interessare la scuola, che però non ha i mezzi, le risorse umane, le competenze. Addirittura ieri, come ha titolato un quotidiano, la scuola deve dare il senso. Invece l’esperienza insegna che quando l’istruzione deborda dai propri compiti, va spesso incontro a fallimenti. E per finire chiediamoci: se non diminuiranno i femminicidi, sarà poi colpa della scuola?
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