L'ora di educazione sessuale, istituita sulla base delle pressioni sociali e politiche, rischia di fare male ai giovani e alla scuola. Una soluzione
Egregio direttore,
i miei figli in questi anni hanno frequentato diversi corsi di affettività e sessualità in diverse scuole statali, sia alle medie che alle superiori.
Devo purtroppo constatare che, nonostante le precauzioni da parte del corpo docente e sia pure con il consenso informato della famiglia, il risultato è stato sempre pessimo.
Questi corsi risultano pesanti innanzitutto per i ragazzi stessi, e non perché essi o i loro compagni siano dei violenti che si sentono soffocati dalle raccomandazioni a rispettare il “consenso” del partner sessuale, che questi corsi si prefiggono di insegnare.
Gli studenti e le studentesse si sentono a disagio perché devono sorbirsi una serie di discorsi espliciti, tutti formulati sulla base del presupposto che essi vogliano – e debbano – fare sesso molto spesso se vogliono essere felici.
Quello che non si vede è che la maggior parte di loro un profondo rispetto dell’altro ce l’ha: nella sessualità cercano l’espressione di un’unione intima e profonda, e provano un senso di nausea davanti all’approccio seguito da questi corsi di sessualità.
Anche la tanto declamata “libertà di esprimersi” in questi corsi, tanto che le figure educative come gli insegnanti vengono fatte uscire, è in realtà una libertà a senso unico, orientata sempre a confermare la bontà di questa sessualità “a consumo”.
C’è oltretutto un paradosso che non si vuole ammettere, e sta nel presentare la sessualità come fonte di felicità sicura, come un “diritto”, a fronte degli inviti a rispettare la disponibilità dell’altro partner. Manca la visione della sessualità come dono.
Messe così le cose, è chiaro che il tema del “consenso informato” da parte dei genitori si trasforma, almeno per alcune famiglie veramente “informate”, in un rifiuto senza appello, che viene però tacciato di oscurantismo.
Mi sono allora chiesto come si possa arrivare a capirsi più a fondo.
Va capita la questione posta dalla cultura progressista, secondo cui è necessario che i ragazzi ricevano tutte le informazioni necessarie allo svolgimento degli atti sessuali con persone diverse e fuori da un progetto familiare. L’idea, se ho capito bene, è che evitando di dare queste informazioni, essi se le procureranno comunque, ma in modo distorto o incompleto e quindi “sbagliato”.
È difficile non vedere in questo approccio un pregiudizio, secondo cui tutti i genitori sarebbero inadeguati a orientare i figli nella sfera affettivo-sessuale, mentre le persone che vanno nelle scuole – i cosiddetti “esperti” – al contrario dei primi lo sarebbero.

Si tratta di esperti che comunque, anche quando veramente competenti di ginecologia e andrologia, non parlano ai ragazzi singolarmente, non vivono con loro quotidianamente, non ascoltano la loro storia. Non sono cioè educatori rispetto a quei ragazzi.
Ma sospendendo questo giudizio e continuando ad ascoltare le istanze, per così dire, “pro-sex speaking”, credo si possa accettare il timore che alcuni genitori non siano abbastanza equipaggiati per affrontare questi temi con i figli.
Ammesso che questa preparazione e questo compito si possa svolgere a parole (altro inganno sotteso nella questione), ecco quindi il senso di qualsiasi approccio formativo dall’esterno: supportare i genitori in questo compito.
Si potrebbe fare così:
1. Le équipes di tecnici individuati dalla scuola fanno una presentazione ai genitori dei contenuti che ritengono urgente trasmettere ai loro figli sul sesso, su come evitare la riproduzione, e sul delicatissimo tema del rispetto del “consenso del partner”, specialmente della donna da parte dell’uomo.
2. Gli stessi tecnici, esperti di come si parla di sesso in pubblico, forniranno anche del materiale ai genitori: guide, video, riferimenti cinematografici e bibliografici, consigli tecnici su come affrontare l’argomento… quando più ritengono opportuno.
3. A questo punto ai genitori viene sottoposta una scelta, ma non come avviene adesso, cioè se autorizzare o meno gli esperti. I genitori sceglierebbero tra queste due opzioni:
a) ne parlano a casa con i figli;
b) preferiscono affidarsi a quegli esperti.
In questo modo nessuno censura niente: i temi vengono trattati e ci si fida gli uni degli altri dopo essersi conosciuti. Ma si lascia ai genitori l’ultima parola.
In fondo è giusto riconoscere ai genitori questa prerogativa, accettando che il bene che desiderano per i loro figli sia autentico, e che senza il loro coinvolgimento è difficile ottenere qualunque risultato sul piano emotivo-relazionale dei ragazzi.
In fondo questi genitori, per quanto semplici o poco preparati, sono persone che quei ragazzi hanno cresciuto per anni, li hanno aiutati a fare delle scelte (dalla scuola superiore allo sport), hanno insegnato loro ad aprirsi alle amicizie, a curare il loro aspetto, a interrogarsi sul progetto di vita, a pregare, a usare internet, a scegliere un film e a volte anche un libro. Ad avere, insomma, cura di sé e del prossimo.
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