Il funzionalismo dell’IA inganna, perché viene meno l’alterità che rimanda ad altro. Il chatbot non ha una struttura ontologica personale (2)
Si parla spesso delle opportunità e anche delle minacce e dei pericoli rappresentati dall’uso dei chatbot a scuola. Al di là delle applicazioni strumentali di questi programmi, più o meno utili e sicuri, credo che il nostro rapporto con l’IA possa diventare un’occasione per approfondire la consapevolezza del compito di insegnanti e educatori a scuola.
La questione è ben sintetizzata dal titolo di un libro di Miguel Benasayag: Funzionare o esistere? L’IA ci fornisce una quantità impressionante di informazioni, ma confonderle con la conoscenza significa smarrire il senso profondo dell’educazione.
Quando subordiniamo il percorso formativo a informazioni e competenze adottiamo un approccio funzionalistico, lo stesso che regola il mondo delle applicazioni digitali. L’educazione non può essere ridotta a un dispositivo funzionale orientato esclusivamente all’efficienza e all’adattamento a logiche di mercato.
I nuovi dispositivi “intelligenti” possono indurci a credere che basti funzionare bene per vivere bene. In fondo non sembra che ci sia una grande differenza tra leggere un testo nella sua interezza e un riassunto prodotto dall’IA, solitamente ben fatto. Benasayag porta un esempio riferito a tutt’altro contesto che può aiutarci a capire. Spesso dice di essere consultato, come psichiatra, su genitori anziani in difficoltà ad abitare da soli a casa loro.
“Quanto può essere difficile per loro prepararsi un caffè! In effetti – osserva – è proprio per fare quel caffè complicato che bisogna restare a casa, perché tutte quelle difficoltà fanno parte del caffè, della mattinata, della vita”. In una casa di riposo quel caffè sarebbe servito alla perfezione. “Tutto funziona bene… tutto tranne la persona stessa”.
Qual è il punto? Le fatiche, le fragilità, mie e dell’altro, sono sempre meno tollerate. Su questa strada si può arrivare a odiare il proprio corpo. Vediamo quanto è diffuso soprattutto tra i giovani il rifiuto di sé. Senza quasi rendersene conto si sacrifica la propria umanità.
Questo non deve succedere. Insegnare significa aprire uno spazio in cui la persona possa scoprire sé stessa e il mondo, inevitabilmente attraverso l’esperienza e la relazione con gli altri e con la realtà, accogliendo pienamente, anzitutto la propria umanità e quella dell’altro, con i limiti propri e altrui. È in un incontro che prende forma il desiderio umano: quello di conoscere, di comprendere, e, ancor prima, di essere riconosciuti da un altro.
I meccanismi dell’IA non rimandano a nessun altro, a nessuna storia, a nessuna esperienza, a nessun autore. Le risposte perfette di ChatGPT non sono scritte da nessuno. L’educazione autentica non può limitarsi ad assecondare. Deve sempre accogliere provocando, ponendo domande scomode, che risveglino un gusto per sé e il mondo, sviluppando uno spirito critico.
Nell’evoluzione umana, i mezzi “facilitatori” hanno diminuito alcune nostre capacità. Un esempio banale: a scuola, l’uso delle calcolatrici ha ridotto la capacità di calcolare a mente. Oggi rischiamo di perdere la capacità di vivere. L’esperienza umana non si può ridurre a calcolo, né a un algoritmo; è una ricerca di senso che nasce nella relazione, spesso faticosa, con ciò che è altro da me. In questo contesto in cui si privilegia la performance e il “prodotto”, la realtà non deve essere addomesticata; è fondamentale che resti “altro”, che conservi la sua resistenza, la sua opacità e la sua imprevedibilità.
L’incontro e la condivisione sono condizioni primarie del sapere. Senza altri con cui condividere attese, scoperte e difficoltà non c’è vera esperienza umana e conoscenza. Il filosofo canadese Charles Taylor ci ricorda che la comprensione delle cose buone della vita “le godiamo in comune con le persone che amiamo”; “alcune di queste cose buone ci diventano accessibili soltanto attraverso un tale godimento comune”.
Ogni allievo che entra in classe (come ho potuto constatare nella mia esperienza di dirigente scolastico) cerca, consapevolmente o meno, una risposta alla domanda: “Per che cosa vale la pena vivere e studiare?” Una ragazza che da due anni non riesce a frequentare la scuola per paura del mondo, mi ha chiesto: “perché è così difficile vivere?”. E un’altra di 12 anni con le lacrime agli occhi mi interpellava dicendo: “Ma c’è al mondo qualcuno che è felice?”. La risposta la cercano negli occhi dei docenti, nella loro serietà, nella loro passione, nella loro umanità, non in una formula.
La scuola fonda il suo operare su una presenza, come abbiamo potuto renderci conto durante il Covid. Non si insegna mai solo una disciplina: si insegna sé stessi. Julián Carrón, riprendendo Luigi Giussani, afferma che l’educazione è “comunicazione di sé, cioè del proprio modo di rapportarsi al reale”. Ogni insegnante comunica sempre qualcosa di sé: il suo rapporto con il sapere, il suo sguardo sul mondo, la sua stessa attesa di senso.
Di nuovo il reale, meglio se in carne ed ossa. Anche i prodotti dell’IA sono “cose altre”, ma la loro alterità è apparente, perché a loro volta non hanno apertura verso altro, non rimandano a nessuno. Sfuggono a quella che Giussani chiamava “la dinamica del segno”. La natura ci fa incontrare le cose come segno, il cui senso rimanda ad altro.
Ora, proprio perché i prodotti dell’IA sono chiusi in loro stessi, richiedono una presenza continua che, usandoli, li inserisca in una prospettiva costantemente aperta all’imprevisto e perciò alla verifica personale, secondo il richiamo di San Paolo: “vagliate ogni cosa e trattenete il meglio” (tralasciando quel che non fa crescere).
Si può leggere assieme in classe una poesia e commentarla e sulla stessa si possono porre domande a ChatGPT per cercare altre risposte. Si può anche interrogare ChatGPT su un certo argomento di scienze. È essenziale, tuttavia, che il confronto con il maestro e con i compagni rimanga il cuore di ogni percorso scolastico, perché solo nella relazione autentica cresce il nostro bisogno di infinito.
(2 – fine)
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