Seconda parte della riflessione dedicata dall’autore alle novità che riserva la scuola in questo inizio d’anno. L’AI su tutte, ma non solo (2)

Quest’anno abbiamo anche una terza novità, o, meglio, una disposizione ormai adottata da tantissime scuole superiori, ma dal ministero dell’Istruzione e del Merito presentata come una novità, in quanto estensione a tutto il sistema di un provvedimento pensato all’origine per il solo primo ciclo, ovvero il divieto di utilizzare in forma privatistica e poco corretta i dispositivi elettronici di comunicazione (cellulari e affini).



Nell’istituto che fino al 31 agosto di quest’anno ho diretto e in molte altre scuole superiori della mia città (Verona) questa disposizione è stata già adottata anche con utili e significative discussioni con gli studenti. Se infatti nel primo ciclo ha senso (entro certi limiti) il divieto, nella scuola superiore bisogna sempre pensare alla dimensione della responsabilità, che ha a che fare proprio con la maturità.



Già dobbiamo misurarci in modo reale e concreto con l’Intelligenza Artificiale, disponibile in forme “attenuate”, ma efficacissime su Google e su altri social-media. Pensare di vietare in modo autoritario e privo di confronto critico l’uso di questi strumenti è come pretendere dagli studenti l’apnea.

Si tratta dunque di attivare una nuova “mutazione genetica”. I ragazzi della Generazione Z (1997-2012) e della Generazione Alpha (2013-2025) non hanno conosciuto, se non al nido e alla scuola dell’infanzia, la dimensione relazionale “in presenza” e per loro è “naturale” quella dei “social a distanza”. Si tratta ora di aiutarli a mutare il corredo genetico-culturale così che possano diventare “generazione anfibia”, capace di vivere entrambe le forme di relazione.



La “dimensione anfibia” sarà probabilmente lo status che ci salverà dall’estinzione relazionale. Saper immergersi nella tecnologia e ritrovare il piacere della compagnia viva e vera, forse, sarà il solo modo per evitare la depressione di sistema.

Abbiamo poi una novità terminologica per le attività parallele all’insegnamento-apprendimento d’aula. Ci siamo liberati di un acronimo insopportabile come PCTO, che però si riferiva a un modo significativo e serio di intendere il rapporto scuola-vita. Ora si chiamerà “Formazione scuola-lavoro”. La denominazione è più comprensibile. Speriamo che non la si intenda solo come addestramento, ma piuttosto venga valorizzato l’aspetto del lavoro, weberianamente inteso come legittima e positiva forma di espressione personale di creatività e di impegno.

Se è vero che uno studente su sette soffre di serie forme di nevrosi, e in qualche caso di psicosi, e che la fobia scolare non è solo un modo per farla franca ma un vero e proprio stato di sofferenza che esige attenzione e rispetto, è evidente che la chiave fondamentale per fronteggiare (non dico per risolvere) questo problema sarà un’azione seria di orientamento, fondato sui bisogni, prima ancora che sui desideri, su una capacità di calibrare i sogni sulle potenzialità e di comprendere che nella Società della Conoscenza valgono le competenze personali, non la posizione occupata (ma questo dovrebbero capirlo anche quelli che le posizioni le creano…).

Scritti d maturità al Liceo “Piero Gobetti” di Torino (Ansa)

E veniamo ora all’ultima grande problematica. Lo schiacciamento psicologico delle nuove generazioni sotto il peso degli zainetti e dei crediti scolastici o universitari. Riusciranno i nostri eroi a recuperare la dimensione della serenità? Quante volte abbiamo sentito parlare da esperti di vario tipo e coloritura dell’importanza dello “star bene a scuola”? e quante volte nei miei interventi ho detto e ripetuto che a scuola non si deve “stare bene”, ma ci si deve stare come chi sa che sta svolgendo un compito non facile, la cui complessità è attenuata dai fattori dell’interesse e del coinvolgimento? La scuola è difficile (finiamola con l’illusione ideologica che si possa rendere facile), come sono difficili tutti gli impegni che esigono un cambiamento interiore, un adattamento a situazioni di frontiera, una sfida alle proprie capacità.

Si tratta però di creare un ambiente nel quale l’allenamento non sia tale da sfiancare l’atleta al momento della gara, così da renderlo incapace di partecipare alle complessità della vita. Qui è strategico il ruolo degli insegnanti, ma ormai è evidente che sono necessarie e insostituibili le alleanze con i neuropsichiatri infantili e con gli psicologi dell’età evolutiva.

La scuola di oggi corre su un binario costituito da dimensione pedagogica e dimensione psicologica. Le due azioni sono parallele e parimenti necessarie. Un insegnante che non ha sensibilità psicologica oggi rischia di parlare un linguaggio incomprensibile. Uno psicologo che gioca a gamba tesa con l’insegnante fa deragliare il treno della vita dell’adolescente. Non facciamoci illusioni. Educare nella società complessa esige competenze comunicative che sono la proiezione di una cultura pedagogica avanzata, soprattutto nel secondo grado.

Chiudo con un augurio a tutti coloro che nella scuola e per la scuola vivono, soffrono, amano. Seneca lamentava già al suo tempo “Non scholae, sed vitae discimus”, intendendo propriamente che spesso avviene il contrario, ovvero “Non studiamo per la vita, ma per la scuola”.

La sua è un’esortazione, dunque, che nasce dal dato reale, con il quale bisogna confrontarsi. Nella Società della Conoscenza i due momenti dovrebbero ormai sovrapporsi e coincidere per il tratto iniziale, e aver molte intersezioni in quello successivo.

Sempre Seneca ci propone un’altra perla, che gli insegnanti di razza hanno sempre sperimentato su se stessi: “Mutuo ista fiunt et homines dum docent discunt” ovvero: “Sono cose, queste, che avvengono in reciprocità e gli uomini mentre insegnano imparano”, come dire che non può insegnare davvero chi non sa imparare.

Oggi dovremmo dire “Et scholae et vitae discimus”. Perché senza scuola, non c’è vita sociale, culturale, lavorativa. Quindi l’augurio è “Educhiamo e impariamo per la scuola, per la vita!”.

(2 – fine)

 

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