Riceviamo e pubblichiamo il tema di una studentessa (ndr).
Il mio primo giorno di liceo fu esaltante, ricordo gli schiamazzi generali fuori dal portone. Portavo una camicia a scacchi nera e rossa e un sorriso stampato in volto come se fosse il giorno più emozionante della mia vita. Ci chiamarono uno a uno. Quando sentii il mio nome, mi avvicinai al resto del gruppo che stazionava all’ingresso.
Fui una degli ultimi a prendere posto, con l’emozione, dentro l’animo, del mio primo banco da liceale e le mille aspettative. Come saranno i miei compagni? I professori? Le materie saranno affascinanti? Tra le mille domande fulminee che affollavano la mia mente una dopo l’altra, non vacillai neanche per un secondo sull’ipotesi che il liceo avrebbe portato il mio cervello a crogiolarsi nel conteggio della media scolastica e nel tunnel del planning settimanale. La scuola mi era sempre piaciuta. Mi piaceva svegliarmi presto la mattina, seguire le lezioni, approfondire, capire o spiegare. Credevo fermamente nella bellezza offerta da una pagina di storia e nel fascino di una dimostrazione matematica. Se ripenso ai pomeriggi passati insieme a mio padre davanti a uno schermo di computer mentre cercava di spiegarmi, con parole semplici, come funzionassero gli spettri di luce o le teorie sulla formazione dell’universo, ancora mi chiedo dove sia finita quella bambina curiosa. Perché i sogni e le speranze che avevo qualche anno fa sembrano essersi volatilizzati insieme a quella lucentezza negli occhi che caratterizza ogni bambino e che purtroppo non riesco più a percepire nei miei.
Ne parlammo proprio il primo giorno di scuola; in primo superiore i ragazzini hanno uno sguardo aperto, nuovo e luminoso, sono pieni di domande e di aspettative. Anche io ero così. Adesso, dall’alto della mia esperienza quadriennale in un liceo, posso affermare di essere totalmente e inesorabilmente uscita fuori di testa. Mi sono persa tra la mole di pagine da studiare e le notifiche del registro elettronico: “ogni pensiero, ogni mio bel disegno / in lei finia, né passava oltre il senno” (Ludovico Ariosto, Orlando furioso, VI, 47).
Nel mio caso però, “lei” non è un’affascinante maga ingannatrice, bensì un cerchietto colorato di verde, al cui interno c’è un numero che indica l’andamento scolastico generale in un lasso di tempo che va da settembre a giugno, situato nella parte sinistra della schermata di apertura del mio registro elettronico. Lo controllo ogni volta che ho fatto un compito o un’interrogazione. È come una droga: inizialmente il tossico non ha la consapevolezza della sua effettiva dipendenza. Pensa di avere il controllo, di avere le facoltà necessarie per salvarsi da solo e trascura il problema, ritenendosi perciò sano. Ma chi si salva da solo?
Le mie giornate da settembre fino ad adesso seguono lo stesso meticoloso schema. Mi sveglio alle 7, mi preparo e vado a scuola. Prendo appunti, spesso non per interesse personale ma per avere nozioni aggiuntive in vista di una prossima verifica, e seguo le lezioni. Torno a casa, pranzo e studio. La mia presenza a tavola durante la cena è diventata quasi un’occasione eccezionale, in quanto difficilmente riesco a portare a termine tutti i miei compiti prima delle 20. Circa due ore dopo vado a dormire, così da essere ben riposata la mattina seguente. Tutto questo viene ripetuto giorno dopo giorno. Senza una pausa.
I giorni e le notti si susseguono e non so perché io debba continuare a vivere se è sempre tutto tremendamente uguale. Sempre se questa possa essere definita come “vita” o se invece debba essere considerata semplice “esistenza”, se non addirittura “sopravvivenza”: “Tu dunque esisterai, sdegnandoti di dover morire, / tu cui la vita è come già morta mentre sei ancora in vita? / […] che hai la mente sgomenta da vane paure / né riesci a capire, assai spesso, il perché dei tuoi mali / e sei tanto ebbro e infelice, in balia di una folla di affanni” (Lucrezio, De rerum natura).
Mi interrogo sul fondamento della mia insoddisfazione sempre più raramente. Ormai mi adagio su quest’illusione che un domani tutto il vuoto che sento passerà. Ma più passa il tempo, più mi sento spenta. Perché? È davvero questo quello che mi aspetta? Il destino dell’uomo è quello di perdere, giorno dopo giorno, la sua spinta naturale verso l’infinito?
Inseguo disperatamente un ideale di perfezione a cui non posso arrivare. Vorrei essere la studentessa perfetta, la figlia che i miei genitori vorrebbero, l’amica che tutti sognano. Invece sono solo io e non so se sarò mai abbastanza. Più passa il tempo e più inizio sinceramente a credere di valere il voto che prendo. Non sono più umana? Se prendo 10 andrò bene? Ma non sono Dio. Il voto che prenderò non sarà mai abbastanza per nessuno e perdo la testa cercando qualcosa che non otterrò mai. Se mai dovessi avere la media più alta in tutta la scuola, sarei felice?
“Facciamo tutti troppa fatica nel tentativo di portare a termine cose tremendamente inutili. È un’esistenza misera questa, passata a rincorrere nessuno sa bene che cosa. Come i criceti che corrono sulla ruota: perché state tutti correndo se neanche potete andare avanti?”. L’ho scritto io qualche mese fa, quando ancora riuscivo a scrivere per me stessa e non per obbligo scolastico. Mi fa rabbrividire il pensiero che a distanza di mezzo anno sia diventata quello che tanto disprezzavo. Da vittima diventi il carnefice e non sei stato tu a deciderlo, neanche te ne sei accorto. Ora sono una di quei criceti che corre senza sosta su una ruota scordandosi, o non capendo, che sta girando a vuoto.
Sono dentro a un labirinto. Intenta a cercare non so bene quale immensa soddisfazione, che però sembra non arrivare mai, in quanto la felicità che provo nel prendere un 9 è a breve termine così come lo è la tristezza che sento dopo aver avuto un 2 in chimica. Dura un paio di giorni o un paio di ore. Dura finché non viene rimpiazzata da qualche altro tormento temporaneo che stuzzica la mia mente. E allora perché mi ostino a farlo? E ho perso tutto per che cosa? Mi sono venduta così, adesso cosa si fa? Come si esce da questa selva oscura?
“Come si diventa vuoti?, pensò Montang. Chi ti toglie tutto?” (Ray Bradbury, Fahrenheit 451). Come si passa dall’impazienza del primo giorno alla disperazione e al terrore di andare a scuola che caratterizza i successivi anni scolastici? Come mai non ho più gli occhi che brillano? Dove sono? Come posso riaverli indietro?
Orlando impazzisce, ma alla fine della storia il suo senno torna sulla terra grazie ad Astolfo che glielo riporta. Io so di essere diventata matta, ma non ho la certezza che esista una qualche regola universale che mi permetta di uscire da questo inferno e non posso mandare nessuno sulla luna per riprendere tutto quello che ho perso. Però posso dire con sicurezza che da sola potrei girare errando per anni come fossi persa nel castello di Atlante. Quindi, sostanzialmente, se dovessi tirare le somme della mia situazione attuale: il primo punto è che mi sono persa; il secondo è che ho paura di non trovare via d’uscita da questo labirinto; infine il terzo, che credo sia il più impegnativo: a chi chiedo?
Dovrei farci i conti, perché da qui in poi la domanda è aperta e mi gioco tutto su questo, sperando di non chiudere la partita al primo fallo.
Clara Palma Boema
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