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Home » Educazione » Storie ed esperienze » SCUOLA/ La sfida è guidare i giovani oltre gli attimi del “presentismo”

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SCUOLA/ La sfida è guidare i giovani oltre gli attimi del “presentismo”

Gli esami di Stato non sono difficili, ma difficile è arrivarci. Ecco perché

Alessandro Artini
Pubblicato 20 Luglio 2022
Esame di maturità (LaPresse)

Esame di maturità (LaPresse)

Prima di raccontare la cronaca degli esami di Stato devo porre una premessa: essi non sono difficili da superare e la stragrande maggioranza degli alunni, infatti, viene promossa. Sbaglierebbe, tuttavia, chi banalizzasse la questione. Difficile, infatti, è arrivare agli esami, perché la selezione, nel quinquennio delle scuole superiori, è aspra. Dunque non è corretto sostenere che la scuola sia finita perché gli esami non selezionano più. Non è vero: più o meno un ragazzo su cinque abbandona la scuola superiore senza neppure giungere alla soglia degli esami. Il problema è come avviene la selezione, cioè se essa sia meritocratica oppure condizionata dalle origini sociali.


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In Italia, purtroppo, le condizioni familiari, quelle che i sociologi definiscono come ascritte, giocano un ruolo fondamentale nel destino scolastico dei figli e il fatto che un padre sia laureato ha un valore predittivo molto favorevole circa la possibilità che il figlio ottenga lo stesso titolo. Dunque, gli esami non sono una procedura banale: la selezione c’è ed è dura, anche se si attua negli anni precedenti a quello conclusivo. Adesso passiamo alla cronaca.


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Cosa è accaduto generalmente dopo il colloquio, che rappresenta la parte conclusiva dell’esame? Nella stragrande maggioranza delle scuole, si è svolto il rito dei festeggiamenti. Prima ancora di conoscere gli esiti dell’esame, fuori da scuola (talvolta anche dentro) si sono stappate bottiglie e i brindisi si sono sprecati in una dinamica celebrativa irrefrenabile. Talvolta ciò accadeva anche negli anni scorsi (non in un passato lontano, quando i festeggiamenti sarebbero apparsi come un atto di indisciplina), ma quest’anno essi, a quanto mi risulta, hanno assunto una diffusione massiccia.


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Che senso ha tutto questo? Forse prima di esprimere giudizi malevoli (di questi tempi, sui giovani, se ne sentono molti), conviene riflettere.

Oggi festeggiamo tutto o quasi e non solamente gli avvenimenti canonici: matrimoni, compleanni, nascite. Partiamo per un viaggio oppure siamo giunti alla meta: un selfie celebrativo sui social non può mancare! Analogamente immortaliamo il primo giorno di scuola dei figli oppure un evento lavorativo e professionale; celebriamo gli inizi di un fidanzamento o più comunemente di un rapporto lavorativo, una cena con gli amici o una nuova esperienza, anche quelle apparentemente più banali. I cibi, nell’età dei cuochi star, sono oggetto di maniacali attenzioni e vale la pena di lanciare nel web anche la foto delle fettuccine.

Ormai le nostre vite scorrono parallele a quelle virtuali e la nostra identità digitale, indispensabile all’interno dei network relazionali, celebra ogni momento, che diventa unico e speciale, anche se di routine. La vita virtuale racconta un’identità ideale, realizzata negli eventi, negli abiti, negli oggetti, nelle mode… Gli influencer, in fondo, sono persone che recitano, nel web, il copione di una vita ideale. Più che persone, essi sono immagini archetipiche, incarnate in corpi metafisici. Lasciamo perdere che alcuni di loro siano persone assolutamente mediocri: ciò che conta è il messaggio di successo che lanciano. Dunque, se questo è lo stato delle cose, perché meravigliarsi se poi i giovani vivono una quotidianità celebrante?

Il discorso è tutt’altro che semplice e forse occorrerebbe uno sguardo antropologico. Con le ritualità il tempo si ferma e, nella sospensione dell’istante, si placa l’ansia del divenire. Le festività non sono solamente quelle tradizionali, peraltro vissute sempre più con spirito consumistico e “babbonatalesco”, ma si moltiplicano e dilagano nella quotidianità, in un tempo destoricizzato. Infatti ci sentiamo esposti come non mai ai rischi della malattia, della guerra, della devastazione ambientale e a quello, oggi soggettivamente pervasivo, della solitudine. Così guardiamo con diffidenza al futuro. Come suggerisce lo storico Enzo Traverso, viviamo l’età del presentismo, dove il passato non annuncia più l’avvenire e non offre una prospettiva di redenzione futura. Siamo incapsulati in un presente dilatato e non coltiviamo prospettive di emancipazione.

Il processo di ritualizzazione, in questi termini, diventa funzionale al rilancio della socialità, che la pandemia ha profondamente vulnerato. Abbiamo vissuto un tempo imprevisto di allontanamento e di separazione. Forse dietro ai brindisi per l’esame concluso, ci sta anche il timido tentativo di ricostituzione di un “noi”, che consenta ai soggetti di trovare nuovamente momenti collettivi.

Adesso si tratta di capire se la scuola sarà capace di guidare un percorso di ri/socializzazione, che guidi i giovani oltre i brindisi, oppure se catalogherà i festeggiamenti come atteggiamenti puerili, da trascurare o reprimere per la serietà della scuola. Di questi tempi, gli adulti non sono particolarmente teneri nei giudizi sui giovani (né lungimiranti), ma qualsiasi valutazione moralistica sarà disfunzionale rispetto al discorso educativo.

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