Il confronto a distanza su italiano e latino chiama in causa un tema apparentemente imprevisto: occorre riformare la governance della scuola

Le due lettere di Marco Ricucci (e lo scambio con Pietro Baroni) pongono con forza sotto i riflettori il tema del ripristino del latino nella scuola media. La posizione di Ricucci è chiara e frutto di debite argomentazioni. Se dovessi sintetizzare, certamente facendo torto all’autore il cui ragionamento è difficilmente componibile in poche parole, formerei la tesi seguente: i nostri alunni sono soggetti a gravi mancanze nell’uso della lingua italiana, sia sul piano della comprensione sia su quello della produzione, quindi che senso ha studiare il latino anziché l’italiano?



In questa prospettiva, non ha senso inserire nel curriculum scolastico anche l’orario del latino, quando non sono sufficienti le ore di italiano per fronteggiare i processi di deculturazione che avvengono particolarmente in questo ambito disciplinare. Se non ho colto il fulcro del suo discorso, me ne scuso, ma se ne ho capito il senso, almeno parzialmente, vorrei sviluppare il seguente ragionamento.



La mancanza di competenza degli alunni in italiano è un fatto noto, evidenziato purtroppo ad abundantiam anche dal rapporto INVALSI 2025, ma la domanda che occorre porsi è se un intervento disciplinare di potenziamento di quella disciplina sia la strada maestra per colmare i vuoti di preparazione degli alunni.

Cercherò di dare una risposta, consapevole che il discorso si fa difficile e controintuitivo. Penso, infatti, che potenziare la padronanza di alcune competenze disciplinari non necessariamente implichi dedicarsi, con una priorità univoca, a quella disciplina.

Lo studio di una materia, se portato avanti in maniera coinvolgente e approfondita, costruisce nella formazione dell’alunno un metalivello, cioè una metacognizione che lo dota di consapevolezza circa le proprie modalità di apprendimento. Una tale coscienza generalmente si riverbera nelle altre discipline, favorendone i progressi.



Certamente non è facile guidare gli alunni a sviluppare una tale modalità di “autopercezione della mente” (se mi si passa questa definizione), ma, qualora la si acquisisca, lo studio di una disciplina riverbera effetti positivi anche sulle altre.

In conclusione, le competenze in italiano non necessariamente discendono solo dagli approfondimenti in quella disciplina. Non neghiamo, ovviamente, che lo studio di quest’ultima possa avere effetti positivi, ma affermiamo che anche gli approfondimenti in altre discipline possono avere conseguenze benefiche in merito alle competenze di italiano.

L’intenzionalità progettuale della didattica in qualsiasi disciplina ha un valore incommensurabile, ma non si dimentichi che gli apprendimenti funzionano spesso per eterogenesi dei fini. Si può migliorare in italiano anche studiando matematica o scienze. Pertanto, non vedo limiti agli apprendimenti in italiano, muovendo dall’apprendimento del latino.

Il latino non va mitizzato dacché il suo studio non è equiparabile ad una panacea. Neppure può considerarsi come il principale veicolo di acquisizione della logica, tramite la grammatica e la sintassi, anche perché la logica – potrebbe obiettare a ragione Ricucci – la si acquisisce soprattutto mediante studi di logica, afferenti, ad esempio, alla didattica della matematica.

Studenti di scuola superiore (Ansa)

Tuttavia è innegabile che la capacità di tradurre, ad esempio, metta in gioco delle straordinarie capacità logiche e competenze linguistiche. Il latino, dunque, se non va esaltato (tanto meno nostalgicamente), neppure può considerarsi una materia in subordine in quanto propone una lingua morta. In sostanza, attenti a ridurne la portata!

Giunto a questo punto, ammesso che il ragionamento finora sviluppato abbia una sua sensatezza, vorrei portare a fondo il mio pensiero, affermando che il latino in certi casi può andar bene e in altri no. Questa mia posizione “relativista” vuole tener conto della natura diversa che hanno le scuole, anche quelle dello stesso ordine e grado, dei contesti territoriali in cui esse sono albergate e dell’utenza. E questa è la conclusione: l’unico soggetto che può decidere della proficuità di una disciplina sono le scuole stesse.

Forse, a questo punto, il mio ragionamento si fa ancora maggiormente controintuitivo e me ne scuso. Ma io ritengo che lo Stato, che ha interesse a costituire una base culturale comune nei cittadini, dovrebbe limitarsi a porre gli standard minimi di arrivo per ogni grado di istruzione. Ciò posto, dovrebbe dare libertà alle scuole autonome di formare gli alunni come meglio ritengono, attraverso il latino o mediante un aumento delle ore di italiano. Le scuole, finalmente autonome, dovrebbero rendere conto del loro operato, come avviene in molti altri Paesi dove, in ciascuna città o provincia, si rende pubblico un elenco di esse con i relativi risultati raggiunti.

Può darsi che il mio ragionamento suoni alieno alla maggior parte dei lettori, ma vorrei invitarli a riflettere sui possibili modi di cambiamento della realtà scolastica, che rappresenta una urgente necessità per l’intero Paese, visti i risultati.

In questa ottica, giova porsi una domanda: una tale riforma, attesa con sollecitudine dall’opinione pubblica più evoluta e anche dai docenti più impegnati e competenti, può derivare dal ripristino di alcune materie e dal maggior rigore nell’assegnazione del voto di condotta? Personalmente penso di no (seppur questi interventi vadano nella direzione giusta).

Occorrerebbe, invece, rivedere la normativa obsoleta dei decreti delegati e consentire finalmente lo sviluppo autonomo – e responsabile – delle scuole. “La scuola la fanno i maestri e non i ministri”: questo è il mio modo di interpretare il sottotitolo del libro di Ivano Dionigi, recensito magistralmente da Giorgio Chiosso.

Qualcuno obietterà: “Vaste programme”. Accetto l’ironia. Mi chiedo tuttavia se, con i cambiamenti epocali attualmente in corso, non sia proprio adesso il momento per muoversi strategicamente. Se non ora, quando?

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