SCUOLA/ L’inganno di “Raperonzolo” 2.0: così una fiaba (riscritta) diventa ideologia

- Pietro Baroni

La fiaba "Raperonzolo" raccontata a scuola, in seconda elementare. Un classico. Ma solo in apparenza. Perché la trama è stata cambiata e il risultato è un mostro

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Torna mio figlio da scuola (seconda elementare) con un libro da leggere. Titolo: Raperonzolo. Ah, la storia della fanciulla nella torre, con i capelli lunghi che usa come corda per far salire il principe, carina, me la ricordo. Poi leggo il sottotitolo del libro: “Le ragazze toste si salvano da sole” (??). Sfoglio perplesso il libro e scopro che per questa Raperonzolo di nuova e correttissima generazione non esiste nessun principe.

Ma raccontiamo questa nuova storia dal principio. Raperonzolo vive in una torre altissima (non si sa perché) con una strega cattiva che la tiene lì prigioniera e la visita ogni giorno, passando dalla finestra e arrampicandosi sui suoi lunghissimi capelli. Un giorno Raperonzolo si stufa della sua prigionia e scende dalla torre, si addentra nel bosco e lì chi trova? Udite, udite, un bellissimo cavallo! Sale sulla sua groppa e si fa delle salutari passeggiate nella foresta alla scoperta della meraviglie della natura. E così tutti i giorni, finché, una volta, una foglia le resta impigliata nei capelli e così la strega capisce che la ragazza esce di nascosto dalla torre. Ma la coraggiosa Raperonzolo non si preoccupa, spinge la strega giù dalla torre, si taglia i capelli (probabilmente perché troppo belli e femminili, quindi sessisti), lascia per sempre la torre e col suo grande amico (il cavallo) diventa una temutissima cacciatrice di streghe. Fine della storia.

Ora, una fiaba non ha lo scopo di insegnare qualcosa. Quello pedagogico non è lo scopo principale di una fiaba (anche se esistono fiabe a sfondo morale, come ad esempio Cappuccetto rosso). Una fiaba è la rappresentazione di un archetipo, cioè di una verità dell’esistenza umana; di fenomeni interiori e di dinamiche esteriori della vita. Come il mito. In questo senso le fiabe hanno un alto valore pedagogico, ma come effetto, non come intenzione.

Non è vero, come sostengono alcuni, che la fiaba è l’avallo dello status quo, del sistema sociale precostituito; è vero il contrario: un tempo il sistema sociale, con tutti i suoi limiti e i suoi schematismi, tentava di rispecchiare la natura umana così come emergeva dall’osservazione e dall’esperienza. La fiaba la raccontava.

La fiaba, dunque, non vuole dire qualcosa, ma ha dentro un mondo di cose, di valori, di risonanze, di realtà umane. È un pozzo infinito di umano. Tutto questo si perde completamente nella versione moderna di Raperonzolo, per lasciare spazio alla narrazione ideologica del self made man, anzi della self made woman, indipendente da tutto e da tutti, soprattutto dai maschi – da notare che i personaggi della nuova fiaba sono tutte femmine, cattive comprese, ad eccezione del cavallo (sigh!), sempre che non si sentisse un po’ femmina anche lui –. “Le ragazze toste di salvano da sole”.

Ora immaginatevi Dante Alighieri che, perduto nella selva oscura (ma oggi le foreste sono tutte belle e luminose, grazie ai nostri amici alberi, e il lupo è una guardia forestale che ne preserva l’incolumità dall’uomo), attaccato da un ghepardo, da un leone e da una lupa famelici, veda Virgilio e anziché gridargli “Aiuto! Salvami!”, gli dica: “Grazie dell’interessamento, ma faccio da solo; non penserai che abbia bisogno di te? Io sono uno tosto!”. Invece un ipotetico sottotitolo della Commedia sarebbe “I ragazzi san di mente seguono chi li sa togliere dai guai”.

Ma torniamo alla fiaba. Ho detto a mio figlio di riportare a scuola il libro e ci siamo messi a leggere insieme la vera storia, quella messa per scritto dai fratelli Grimm, che dice così: un giorno una donna incinta è presa dalla voglia di raperonzoli, che ha visto nel meraviglioso giardino di una maga. Tormenta il marito, fino a convincerlo ad entrare due volte nel giardino e a rubare i raperonzoli. La seconda volta la maga scopre l’uomo e, come risarcimento del furto, chiede di prendersi il bambino che nascerà. Già qui c’è un mondo: il fenomeno reale e innegabile delle voglie delle donne incinte; l’influenza che la moglie ha psicologicamente sull’uomo (un motivo che ritorna innumerevoli volte nelle fiabe di tutto il mondo, vedi Hansel e Grethel); il grande tema del peccato originale (c’è un giardino meraviglioso da cui l’uomo e la donna prendono e mangiano un frutto proibito e il danno che ne segue). Ripeto, la fiaba non vuole alludere allegoricamente ed intenzionalmente a tutti questi temi, ma ce li ha dentro, è la cassa di risonanza di un mondo di valori, significati, simboli, immagini sedimentati nei secoli nella coscienza collettiva dei popoli, cioè nella loro cultura.

Proseguiamo la storia: nasce una bimba, che la maga si prende con sé; la chiama Raperonzolo e la tiene a vivere in una torre, alla quale si reca ogni giorno e vi sale arrampicandosi con i capelli di lei. Un giorno un giovane principe (non un cavallo), passando per il bosco vede la bellissima fanciulla alla finestra (altro topos pieno di significato. La finestra è il luogo-soglia fra il dentro e il fuori, luogo dell’apertura alla vita, alla sua bellezza, ai suoi piaceri, luogo del desiderio vissuto, desiderio di qualcosa di indefinibile, che ci aspetta là fuori, ma anche luogo dal quale posso ritirarmi velocemente e difendermi in caso di pericolo) e se ne innamora. Scopre il modo per entrare nella torre e la formula da dire, che la maga ripete ogni volta: “Oh, Raperonzolo / sciogli i tuoi capelli / che per salir / mi servirò di quelli!”. Ora, i capelli, insieme alla bocca e alla pelle, nell’iconografia della tradizione, sono il simbolo della bellezza (capelli color dell’oro, labbra color della rosa, pelle color dell’avorio) e i capelli lunghi in particolare, da sempre caratteristica della dea Venere. In questa immagine del giovane principe che sale attaccandosi ai capelli della sua bella, c’è tutta la tradizione che dall’amor cortese in poi ha codificato il rapporto del maschio con la femmina. La femmina, anzi la donna, che etimologicamente significa “signora” (la mia donna, da cui madonna) sta in alto, lassù, inarrivabile, superiore.

L’uomo, il maschio, sta in basso, dominato dalla sua forza fisica, che è anche la sua aggressività, la sua violenza, il suo essere bruto, vicino all’humus, vicino agli animali (il principe viene dal bosco). E il principe, andando verso la donna, sale, cioè si eleva, in un esercizio di umanità, in una ascesi da essere bruto a essere spirituale. E l’unico mezzo per farlo sono i capelli di lei, cioè la bellezza della donna. Non c’è altro accesso alla torre. La bellezza innamora e questo amore purifica l’uomo, elevandolo. Il giovane principe, dunque, entra nella torre e per molti giorni ama la fanciulla ed è da lei riamato, “come marito e moglie”, dice il testo.

La cosa va avanti all’insaputa della maga. Ma un giorno, quando la maga va a trovare Raperonzolo, questa, ingenuamente, le dice: “Ditemi, signora Gothel, come mai siete tanto più pesante da sollevare del giovane principe?”. Particolare strano, apparentemente assurdo, molto meno credibile della versione moderna, in cui una foglia rimasta nei capelli della ragazza svela l’inganno. Ma, di nuovo, la fiaba non deve essere realistica, ma contiene qualcosa. Qui è molto profonda la questione: Raperonzolo, che fino all’incontro con il giovane principe ha vissuto tranquillamente nella torre, senza lagnarsene, ora vede la differenza. La vita di prima le pesa, le risulta non più accettabile. L’amore le ha fatto conoscere una dimensione nuova di sé e della vita ed è di gran lunga più leggera, preferibile. La maga si arrabbia molto, taglia i capelli di Raperonzolo (cioè le porta via la sua bellezza) e confina la fanciulla nel deserto “a vivere miseramente”. Qui Raperonzolo partorisce due gemelli, un maschio e una femmina. È l’idea di un frutto buono che nasce da un amore buono e grande. Un frutto completo: un maschio e una femmina.

Il principe torna alla torre, sale e vi trova la maga, che gli dice che Raperonzolo è perduta per sempre. Egli disperato, si getta dalla torre, ma, anziché morire, resta cieco. Vaga poi per i boschi, piangendo, finché, anni dopo, capita nel deserto dove vive Raperonzolo, in povertà con i due figli. I due si riconoscono e lei lo abbraccia piangendo. Due lacrime di lei bagnano gli occhi del principe ed egli torna a vedere. C’è bisogno di spiegare il valore salvifico dell’amore? Fine della storia. Mio figlio ne era entusiasta e mi ha detto: domani la racconto alla maestra!

PS: la storpiatura moderna di questa storia ha anche un non detto inquietante. L’altra faccia della medaglia della frase “le ragazze toste di salvano da sole” è: “se sei nei guai, sono c…i tuoi…”.

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