Le nuove Indicazioni per elementari e medie attendono il parere del CSPI. Sono fondate su rispetto, persona, relazione. Problematico il tema delle "regole"
Le Nuove Indicazioni nazionali per le scuole dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, terminato l’iter di competenza del ministero, entreranno in vigore dall’anno scolastico 2026-2027.
Paragonato con la bozza iniziale, il testo conclusivo si presenta più asciutto e “digeribile” anche da un pubblico di non addetti ai lavori. Il documento è comunque impegnativo e denso di richiami a una scuola dell’identità nazionale, capace di unire passato e presente, che guarda a un futuro di conoscenze sempre più digitalizzate e informatizzate, senza abbandonare la tradizione tipica della scuola italiana.
Il messaggio che ne proviene è che si tratta non solo di far funzionare le menti, ma di aiutarle a trovare il senso di quello che fanno. I due assi fondamentali, più chiaramente espressi, sono da una parte quello della valorizzazione della persona dell’alunno (ma potremmo intendere di chiunque operi nella scuola) e, dall’altra, quello delle discipline scolastiche, definite molto accuratamente nei loro statuti fondamentali.
L’asse personalistico, si diceva. Esso emerge da assunti come il seguente (fa parte delle premesse di carattere culturale): “La persona è identità, relazione e partecipazione. Da qui la fondamentale azione della scuola nel promuovere l’identità personale, culturale, relazionale e partecipativa di ogni essere umano”.
La scuola è, o dovrebbe essere, scuola di relazioni, di accoglienze, di inclusività. E soprattutto scuola di maturazione di talenti. La tematica del “talento”, oggetto di infinite polemiche riguardanti una possibile deriva classista e meritocratica dell’istruzione targata centrodestra, ha meritato un approfondimento.
Il talento, si specifica, “va inteso come l’espressione attiva e situata delle potenzialità del soggetto, non riducibile a una dote innata, ma strettamente connesso alla sua capacità di mettere in gioco risorse cognitive, affettive e creative in risposta alle opportunità offerte dall’ambiente. In questa prospettiva, il talento emerge quando l’alunno è inserito in un contesto capacitante, ossia in un ambiente educativo che riconosce le sue possibilità, ne sostiene l’autonomia e ne stimola lo sviluppo”.
Fin qui la citazione che, pur involuta, è corrispondente a una pedagogia attivistica e non puramente assistenzialistica. In effetti una scuola che aiuti i giovani a porsi in modo critico e personale di fronte alle sfide della realtà sembra quanto mai opportuna in un tempo di modificazioni culturali, ambientali e geopolitiche come il nostro.
Legato alla personalizzazione degli apprendimenti è collocato il fondamentale (per la linea politico-pedagogica di questo ministero) tema del “rispetto”, che ha fatto la propria comparsa anche nelle prove di italiano all’esame di maturità.
Si ribadisce che il rispetto è “l’obiettivo di un’educazione finalizzata al riconoscimento e alla valorizzazione delle differenze di ciascuno”. La didattica dovrà rendere possibile esperienze di sentimenti basilari come la fiducia, l’empatia, la tenerezza, l’incanto, la gentilezza. In questo senso, “tutte le discipline e metodi, dall’educazione motoria alla letteratura e alle Stem, dalla musica alle arti, dalla scrittura autobiografica al cinema, al teatro e al gioco, sono grandi alleati degli insegnanti”.
Se rispetto, persona e relazione sono il primo perno delle Indicazioni, l’altro è indubbiamente costituito dalle discipline, tra le quali emergono per importanza l’italiano, la storia, l’educazione civica.
Scuola della tradizione, si diceva, anche se non manca un preciso e accurato cenno alle discipline Stem (il blocco matematico-scientifico-tecnologico) che dovrebbero fornire spunti e idee per rendere gli alunni partecipi, in laboratorio, dei contenuti proposti.
Cosa che invece non succede per le discipline umanistiche imperniate sul lavoro di valenza identitaria e riflessiva. L’Italiano è da concepire come insegnamento-apprendimento della struttura della lingua italiana, perciò grammatica e testo letterario vanno insieme.
A scanso di equivoci, si precisa (ma c’era già prima) che “al centro dell’apprendimento devono stare i testi, e sui testi vanno saggiate e affinate le capacità di comprensione e di interpretazione degli studenti”. Tutto il resto viene di conseguenza: abituare i ragazzi a leggere ma farli anche scrivere (e tanto). Soprattutto a riassumere, in modo da spostare “il carico cognitivo sulla riscrittura di un testo già esistente: di qui l’invito a riscoprire l’esercizio del riassunto, che è un esercizio fondamentale per apprendere a scrivere e a pensare”.
La disciplina “storia” occupa un posto centrale nelle Indicazioni. L’impostazione è storicistica, dato che “l’affermazione circa il carattere storico di ogni conoscenza umana e l’assorbimento nella dimensione della prassi di ogni significato o prodotto della conoscenza stessa, vuoi nella sua versione idealistica crociana che in quella dell’attualismo di Giovanni Gentile, vuoi nella versione marxista di Antonio Gramsci – , ha influenzato in misura decisiva l’intero corso del Novecento”.
Nello stesso tempo la storia è politica: “Da lì [dalla ricerca delle cause] ha preso avvio l’attenzione alla struttura del potere, a valutare realisticamente i rapporti di forza tra gli attori in campo, ai nessi intercorrenti tra i diversi ambiti dell’agire sociale”.
Si tratterà di vedere come la scuola saprà recepire e adeguarsi a questa mole di prescrizioni (sulla gran parte delle quali non è possibile qui dilungarsi per ragioni di spazio). Si accende in conclusione una grande spia del motore che segnala: attenzione, il carburante si sta esaurendo! Fuor di metafora, si pone seriamente la questione dell’ambito in cui personalizzazione e discipline si incrociano: la libertà personale.
E qui in effetti qualcosa manca. Su questo punto le Indicazioni risentono di un eccesso di formalismo che non è stato corretto nel passaggio al testo definitivo. Se la libertà è giustamente intesa come categoria fondante della democrazia, si presuppone che “grazie al lungo allenamento all’autogoverno garantito negli anni di frequenza scolastica, e in virtù delle ‘regole’ (regole di comportamento, ma anche regole tratte dai contenuti e dai metodi delle stesse discipline, come, p.e., le regole di grammatica o le regole dei giochi in palestra), l’allievo interiorizzi il senso del limite e un’etica del rispetto verso il prossimo”.
Occorre considerare, come l’esperienza di ogni insegnante-educatore suggerisce, che la libertà come senso del limite è solo un aspetto della coscienza di sé che l’essere umano deve apprendere. Non è tutto. Esiste anche l’altra parte: la libertà come senso dell’infinito, dell’illimitato cui tende ogni dimensione dell’attività e del desiderio.
I giovani hanno bisogno di regole, ma se devono “solo” darsi una regolata (state fermi se potete!) difficilmente diventeranno responsabili collaboratori dell’interlocuzione didattica. Sarebbe bene non dimenticarlo per non inficiare tutta la costruzione.
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