BUCAREST – Non è l’unica volta che mi avventuro, con alunni di prima media, a guidare un laboratorio di autobiografia: recuperare, a undici anni, la materialità esistenziale delle proprie esperienze è senza dubbio un’opportunità da non perdere. Se poi un percorso di questo genere è da considerarsi valido in tutti i contesti educativi, affrontarlo qui a Bucarest, nella scuola italiana “Aldo Moro” dove insegno, può fornire uno spaccato interessante di quell’universo così articolato e complesso che l’Europa Orientale rappresenta.
È indubbio che la struttura del progetto esigerebbe maggiore continuità per essere interamente sviluppata; avendo invece a disposizione solo tre mesi con una scadenza settimanale pomeridiana di appena cento minuti, ho scelto di focalizzare l’attenzione degli alunni sulle quattro tematiche che ritengo più significative: l’origine e la storia del proprio nome, la famiglia come ambito privilegiato per maturare la conoscenza di sé, la casa come richiamo ai bisogni primari di riparo e protezione e infine giochi e giocattoli come strumenti capaci di favorire l’esperienza evolutiva fondamentale per entrare nel mondo e cominciare a viverci.
Trovandomi attualmente a metà del percorso, ho già scoperto quali risorse sappiano mettere in campo questi ragazzini quando riflettono, forse per la prima volta in maniera consapevole, sul proprio nome e sul perché i loro genitori abbiano preferito quello ad altre ipotesi prese comunque in considerazione. Alle mie domande incalzanti e provocatorie, alcuni accettano di narrare aneddoti dell’infanzia che, mentre affiorano alla loro memoria, stimolano altri compagni ad intervenire. Il clima allora si accende e si fatica ad arginare l’entusiasmo con cui i più vivaci rubano la scena a quanti, forse intimiditi, rimangono silenziosi e composti al loro banco; è a quel punto che scelgo di avvicinarmi e di provare io stessa ad interpellarli, desiderosa di farmi stupire dalle loro narrazioni, velate talvolta da una strana malinconia.
Crescere, si sa, è impegnativo per tutti e tanto più per chi, in famiglia, sta soffrendo magari la ferita di una separazione: disagio, irrequietezza, indifferenza segnalano – lo sappiamo bene – disturbi relativi alla sfera affettiva; denunciano perciò situazioni familiari che hanno smarrito i contorni limpidi di una compagine affiatata e serena.
Riflettere con delicatezza su questa condizione fino al punto da condividerla, consente a ciascun ragazzo non certo di eludere l’evento doloroso, ma quanto meno di ridimensionarlo. Ed è proprio nelle parole e negli sguardi di chi, a superare l’ostacolo, ci ha già provato, che traspare, almeno per ora, l’accettazione positiva di un dato con il quale ha scelto di misurarsi da subito.
Un esempio semplice, ma significativo, può forse documentarlo: alla mia proposta di costruire sul quaderno l’albero genealogico della famiglia partendo dai nonni, passando per i genitori e arrivando giù sino ai figli, qualcuno ha chiesto con assoluta naturalezza cosa avrebbe dovuto scrivere nella casella dei genitori visto che mamma e papà erano divorziati; io, con altrettanta naturalezza, ho chiesto se, dopo il divorzio dei genitori, loro avessero continuato a considerarsi a tutti gli effetti figli della loro madre e del loro padre; alla secca risposta affermativa, ho precisato allora che un figlio rimane tale per il resto della vita ed è proprio questo fatto ad avere la meglio su qualunque divorzio, compreso quello dei loro genitori.
Va detto però, a questo punto, che sono ancora tante le famiglie, qui in Romania, ad essere felicemente unite da un vincolo solido e duraturo. In un brainstorming guidato da me alla lavagna, avevo chiesto ai ragazzi di indicare quali fossero, a loro giudizio, i caratteri propri di una vera famiglia: l’amore, mi hanno detto, il rispetto reciproco, l’aiutare chi è in difficoltà, il radunarsi a tavola almeno per la cena, ma anche avere la libertà di litigare perché, tra chi si vuol bene, è impossibile, alla fine, non riconciliarsi.
Trovandomi al momento in mezzo al guado di questa attività laboratoriale, mi accorgo che la prima a beneficiarne sono proprio io, io che mi sono rimessa in gioco e rivivo, con questo manipolo di undicenni, il gusto impareggiabile dell’educare.
Mi sembra preziosa, al riguardo, una poesia dell’ebreo polacco Janusz Korczak. L’incipit è un verbo all’imperativo rivolto agli adulti: Dite. “Dite: / È faticoso frequentare i bambini. / Avete ragione. / Poi aggiungete: / Perché bisogna mettersi al loro livello, abbassarsi, inclinarsi, curvarsi, farsi piccolo. / ora avete torto. / Non è questo che più stanca. È piuttosto il fatto di essere obbligati a innalzarsi fino all’altezza dei loro sentimenti. / Tirarsi, allungarsi, alzarsi sulla punta dei piedi. Per non ferirli” (J. Korczak, Quando ridiventerò bambino).
Se è vero, come afferma il poeta, che a stancare non è innanzitutto l’abbassarsi al livello dei piccoli, ma l’essere piuttosto obbligati a “tirarsi, allungarsi, alzarsi sulla punta dei piedi”, per raggiungere “l’altezza dei loro sentimenti”, è quest’ultimo tipo di stanchezza che dobbiamo riprendere a desiderare. Liberi finalmente da un presente sterile e rassegnato, torneremo forse a credere di poter ridiventare bambini.
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