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Home » Educazione » Scuole Superiori » SCUOLA/ Smartphone e social, serve un rimedio più grande dei divieti

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SCUOLA/ Smartphone e social, serve un rimedio più grande dei divieti

Roberto Laffranchini
Pubblicato 27 Maggio 2025
(Ansa)

(Ansa)

I danni de super-utilizzo di smartphone e social sui giovani sono evidenti. Ma le (giuste) restrizioni a scuola e in casa sono solo una prima mossa

I danni della colonizzazione di smartphone e social sui giovani sono evidenti. I disturbi fisici, psicologici, mentali che oggi si riscontrano nella generazione Z (i cui membri sono nati dopo il 1996) sono in gran parte proprio riconducibili agli effetti del progressivo e rapido allontanamento dal mondo reale e all’immersione nel mondo virtuale creato dalla tecnologia digitale.


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Soprattutto dopo – e grazie – alla pubblicazione del libro La generazione ansiosa di Jonathan Haidt (Rizzoli, 2024), che ha analizzato le conseguenze sulla salute dell’uso di smartphone e social, si sono intensificate le prese di posizione per combattere il fenomeno; fra l’altro senza incontrare particolari opposizioni da parte degli stessi membri della generazione Z.


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Sulla scia delle proposte dello psicologo americano, in tutta Europa, seppur con importanti differenze tra Paesi e regioni, si chiede un irrigidimento delle regole sull’uso di smartphone e social fuori e dentro la scuola. Non mancano nemmeno voci che auspicherebbero un ritorno al passato, pur sapendo che si tratta di una battaglia persa.

Di fronte all’aggravarsi delle malattie comportamentali diffuse tra i giovani, anche gli appelli per un uso “corretto”, “informato”, “critico” e “consapevole” delle nuove tecnologie hanno mostrato la loro superficialità pedagogica e la loro inefficacia.


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Nemmeno le raccomandazioni per un uso “accompagnato” dagli adulti hanno avuto maggior successo. Mi riferisco a quelle esortazioni provenienti da un certo mainstream pedagogico rivolte al mondo degli educatori che di fatto si sono limitate ad assegnare agli insegnanti la funzione di “facilitatori” del percorso di crescita dei giovani, rinunciando, in nome di un falso rispetto, ad assumersi una vera responsabilità educativa.

Il trend ha influenzato anche i genitori che hanno fatto del rispetto dell’autonomia dei loro figli un caposaldo della loro prassi educativa. Salvo poi farsi prendere dall’ossessione per la sicurezza, mettendo in atto misure di controllo iperprotettive che conferiscono al cellulare la funzione di surrogato del genitore assente o, per lo più, disorientato.

Andando decisamente contro corrente, Haidt analizza a fondo il fenomeno e dà chiare indicazioni per migliorare la salute mentale dei giovani. Di fronte a una situazione molto preoccupante propone con convinzione provvedimenti immediati e restrittivi. Ma conviene tener presente che le cause del degrado descritte nel libro dello psicologo americano sono due: la scarsa protezione nel mondo virtuale, ma anche l’iperprotezione nel mondo reale, che ha progressivamente ridotto la capacità di esperienza dei giovani.

La seconda causa non deve essere trascurata. È interessante notare che essa ha prodotto i suoi effetti negativi ben prima dell’avvento di internet, quando si sono manifestate varie forme di paure soprattutto dovute alla sensazione che tutto e tutti costituissero una minaccia soprattutto per i più giovani. Così la responsabilità degli adulti e delle istituzioni è venuta sempre più a coincidere con pratiche di supervisione che hanno distolto i giovani da un confronto naturale e sano con la realtà.

Non è evidentemente in discussione una ragionevole preoccupazione per l’incolumità psico-fisica dei bambini. L’esagerata supervisione ha tuttavia trasmesso un messaggio educativo con gravi ripercussioni sulla crescita dei più piccoli: la realtà è nemica, è inaffidabile, bisogna ridurre in tutti i modi i rischi dell’impatto con la realtà. Il risultato è stato ed è l’isolamento socioaffettivo sempre più diffuso.

I genitori, come si legge nel libro di Haidt, hanno avuto una grande responsabilità in questa evoluzione. Bisogna tuttavia considerare che essi sono l’anello più debole di una rete di informazione che ha i suoi protagonisti più influenti nei media e tra i cosiddetti “esperti” di questioni socioeducative, oltre che nei detentori di interessi legati alla diffusione dei social media.

La scuola ha le sue responsabilità. Già a partire dagli anni 90 l’insegnamento e l’apprendimento sono stati impostati su un’idea di competenza fondamentalmente collegata alla convinzione – falsa, come documenta Haidt – che per avere successo nel mondo reale fosse necessario esercitare le proprie abilità in un mondo separato. Come se fosse immaginabile sviluppare – penso soprattutto alla scuola dell’obbligo – le cosiddette soft skills, come per esempio le capacità relazionali e comunicative, la leadership o addirittura la fiducia in sé stessi, in un contesto artificiale, lontano dai contraccolpi della realtà.

In una vignetta riportata nel libro di Haidt, una maestra, presentando la scuola a due genitori che si apprestano a consegnarle il figlio, dice: “Abbiamo creato un ambiente sicuro e non giudicante che non preparerà affatto vostro figlio alla vita reale”.

Questo rimane il problema. Già a inizi degli anni 90 Luigi Giussani denunciava quello che chiamava “effetto Chernobyl” sul funzionamento dell’io, con riferimento al disastro avvenuto nella centrale nucleare di Chernobyl in Ucraina, nel 1986. E scriveva: “È come se oggi non ci fosse più alcuna evidenza reale”. Parlava di estraneità rispetto a noi stessi, “scarichi (come pile che invece di durare ore durano minuti)”, di “plagio fisiologico, operato dalla mentalità dominante”.

Mentre ci occupiamo degli effetti nefasti sui giovani di una vita spostata online, non possiamo dimenticare ciò per cui siamo fatti, oggi come ieri, in qualsiasi condizione: vale a dire, riconoscere sé stessi con la propria esigenza di un significato dell’esistenza, senza il quale non si può vivere, e l’essere riconosciuti, cioè amati, affinché la nostra passione per la realtà non sia bloccata dalle nostre paure. Ciò può accadere, scriveva ancora Giussani, in un incontro vivo, “imbattendosi in una presenza che suscita un’attrattiva” e comunichi che esiste ciò per cui è fatto il cuore umano.

Di fronte alla nuova Chernobyl che sta investendo i giovani di oggi, mi sembra urgente riaffermare una cultura della vita. Gli adulti hanno una grande responsabilità, ma sappiamo anche che non possono essere lasciati soli. Ritengo che proprio la scuola, per il suo profilo comunitario, possa essere un ambito in cui instaurare una solidarietà di fronte ai pericoli incombenti e anche di fronte alle esigenze più profonde dell’essere umano.

È necessario, tuttavia, che la scuola recuperi una coerenza pedagogica e culturale che non ceda alle logiche funzionalistiche basate sulla prestazione, ma riaccenda il gusto per la conoscenza e la passione per la vita.

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