SCUOLA/ Soft skills, la “materia oscura” alla base delle eccellenze

- Luisa Ribolzi

Una ricerca sulle “competenze non cognitive” ne dimostra il ruolo formativo: come sia possibile identificarle e valutarle ce lo spiega Luisa Ribolzi (Fellow Fondazione per la Sussidiarietà)

diamanti (LaPresse)

Quando ero vicepresidente dell’Anvur, e chiedevo al presidente, Stefano Fantoni, illustre fisico, ma soprattutto simpatico e ironico amico, di spiegarmi qualche argomento di fisica, mi dava una spiegazione chiara e diffusa, per poi concludere con un mezzo sorriso “fatica sprecata…”. Tra le cose che non ho dimenticato, però, c’è la definizione di “materia oscura” come qualcosa che non si vede, ma è rilevabile in modo indiretto dai suoi effetti; e pur non sapendo bene che cosa sia, sappiamo che costituisce la maggior parte dell’universo (circa il 90%, mi pare di ricordare).

È dunque appropriato il titolo di un webinar che ho seguito ieri mattina, la presentazione di una ricerca fatta in Trentino sulle “competenze non cognitive”, o, per dirla con il termine inglese più comunemente utilizzato, non cognitive skills, o Ncs. A questo punto, potremmo dire con Metastasio “che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”, e forse addirittura modificare il testo con “cosa sia nessun lo sa”, visto che nella sua relazione introduttiva, Giorgio Vittadini ne ha elencate parecchie. Né mi sembra corretto limitarsi a dire che cosa “non sono” (cioè competenze cognitive), dal momento che nel processo di apprendimento i due aspetti – cognitivi e non cognitivi – sono così strettamente correlati che possono essere separati solo per una comodità classificatoria.

Quello che conta per chi lavora nella scuola, o si occupa di politiche educative, non è però una definizione teorica, per precisa che sia, ma piuttosto sapere se esercitano un’influenza anche sulle competenze cognitive, tradizionalmente l’esito desiderabile del percorso scolastico; e in caso di risposta affermativa, come sia possibile identificarle e valutarle.

Dalla ricerca, oltre che dalla letteratura scientifica, emerge che sì, questa influenza esiste, ed è forte soprattutto per i ragazzi che fanno più fatica ad adattarsi allo stile di apprendimento accademico, che resta il più diffuso nella scuola: vediamo così che è possibile correlare caratteristiche come la stabilità emotiva, la stabilità interiore, la creatività, con il punteggio dei test Invalsi.

In prospettiva, queste competenze sono particolarmente apprezzate dal mondo del lavoro, come hanno messo in luce i due ospiti del seminario, Benasso della Nestlé e Travaglia di Accenture, che hanno entrambi dichiarato che l’impresa cerca di “ingaggiare” (e non selezionare!) i talenti, guardando proprio a caratteristiche come la capacità di entrare in relazione o di mettersi in discussione, o di confrontarsi con gli altri, più che non il voto di laurea o, perfino, il tipo di laurea. Molte delle competenze tecniche si possono acquisire sul lavoro, ma non quell’attitudine di fondo che consente di affrontare il cambiamento senza esserne sopraffatti. 

È fondamentale un approccio in cui le competenze Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics) siano integrate da quelle culturali e umanistiche, perché è vero che la tecnologia potenzia la capacità dell’umano, ma non si deve dimenticare che dall’umano è governata. Sia Benasso che Travaglia hanno assegnato all’impresa un vero ruolo formativo, e non solo di addestramento: ma la scuola subito dopo aver introdotto l’alternanza, cioè un’esperienza di lavoro inserita nei percorsi formativi, ha effettuato una spettacolare marcia indietro, sostituendola con i Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (Pcto, sigla impronunciabile che ritengo sia nota al massimo a cinque genitori su cento).

Quello delle competenze non cognitive è uno dei temi di maggiore attualità nella ricerca educativa, e da qualche anno ha anche ispirato molte sperimentazioni, e perfino alcuni ordinamenti ministeriali, segnatamente quelli riferiti all’educazione civica: ma, come ha sottolineato la viceministra Ascani, non basta modificare la normativa, bisogna passare dalla formazione degli insegnanti, che anche dove esiste non comprende se non in rari e sporadici casi, collegati sostanzialmente al soggetto formatore, delle indicazioni per una progettazione di profili in uscita che comprendano anche competenze trasversali, soft, tratti caratteriali.

Questo è vero, ma non deve coincidere con il deresponsabilizzare interamente gli insegnanti, che nella formazione in servizio potrebbero cercare di acquisire la capacità di articolare il loro insegnamento in modo meno tradizionale. In un’analisi di secondo livello delle ricerche sugli insegnanti che ho fatto qualche mese fa per scrivere un testo, alla domanda su quali argomenti avrebbero voluto trattare nei corsi di aggiornamento, questo tema era totalmente assente. Francesco Pisanu ha sottolineato come in effetti nella sperimentazione di Trento la formazione degli insegnanti è stata la parte maggiore delle attività.

Il ministero colloca le Ncs nell’ambito delle competenze di cittadinanza, ma ho qualche perplessità in merito, e la più importante è che c’è un accordo quasi unanime sul fatto che quelli che vengono definiti “tratti della personalità”, messi in luce da Hackman con uno specifico riferimento all’educabilità, si acquisiscono nei primi anni di vita, e quindi occuparsene nella secondaria di secondo grado, in relazione con l’impiegabilità, rischia di venire troppo tardi. Gli ordinamenti, come ha fatto notare Damiano Previtali, prevedono che anche le Ncs siano oggetto di valutazione, ma che tipo di valutazione è possibile per questa “materia oscura”? A mio avviso, si dovrà pensare a una valutazione olistica, che non sopprime i test su larga scala (che misurano altre dimensioni dell’apprendimento), ma guarda alla persona globale dello studente, e non solo a un suo “prodotto”.

È una valutazione in divenire, che si basa sull’osservazione delle “3P”: la persona, il processo e il prodotto: con un maggiore dettaglio, la persona può essere analizzata individuando caratteristiche come la partecipazione, cioè il contributo personale ai processi di apprendimento e insegnamento, la capacità di progettazione, la creatività, l’efficacia e quant’altro, anche in relazione al livello e all’indirizzo di scuola. Una valutazione di questo tipo dovrebbe partire da una conoscenza analitica della situazione di partenza, per porre l’obiettivo di colmare il divario fra le competenze in entrata e quelle previste dal profilo atteso in uscita.

Nella scuola secondaria di secondo grado, i ragazzi possono o forse devono essere coinvolti nella valutazione, che va regolarmente calendarizzata, e può comportare una parte comune alla classe e una parte faccia a faccia con i singoli. Esperimenti in questo senso hanno dato risultati molto promettenti, ma si richiede che i docenti siano formati a farlo. Previtali, parlando a nome del ministero, ma probabilmente più suo che istituzionale, ha anche sottolineato la funzione insostituibile della ricerca, e la necessità di mettere in luce le finalità di un insegnamento di questo tipo: dico a suo nome, perché il ministero non mi pare particolarmente interessato alla ricerca, e nemmeno alla motivazione di docenti e alunni.

Né lo è la politica in generale, se Vittadini ha ritenuto opportuno concludere l’incontro ripetendo che l’infrastruttura in cui investire è innanzitutto la scuola, che potrà così proporsi nuovi compiti formativi senza rinunciare necessariamente a quelli tradizionali.





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