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Home » Educazione » Scuole Superiori » SCUOLA/ Voglia di lunedì, l’unico desiderio “impossibile” che può bucare la finzione

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SCUOLA/ Voglia di lunedì, l’unico desiderio “impossibile” che può bucare la finzione

Valerio Capasa
Pubblicato 14 Dicembre 2023 - Aggiornato alle ore 15:37
Giorgio Gaber (1939-2003) (LaPresse)

Giorgio Gaber (1939-2003) (LaPresse)

Un'ora di supplenza a scuola è capace di disarmanti rivelazioni. Solo un'imprevista libertà è capace di bucare lo schermo dell'omologazione e del disinteresse (3)

La seconda settimana di scuola si è aperta in un liceo con 44 insegnanti assenti e si è chiusa con 900 studenti assenti. Il lunedì c’era assemblea sindacale (che, com’è noto, è dogma di fede, anche per i numerosissimi credenti non praticanti), il sabato faceva caldo, quindi si protestava (contro il cielo, presumo). Permettetemi almeno di dedurre, insieme a Gaber, che esista un problema maggiore di quello sindacale e di quello climatico: “Amore, non ha senso incolpare qualcuno o calcare la mano / su questo o quel difetto o su altre cose che non contano affatto / Amore, non ti prendo sul serio / quello che ci manca si chiama desiderio”.


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Il desiderio, per essere concreti, sarebbe la voglia di lunedì: non vedere l’ora di cominciare, di esserci. Se vuoi avere un’idea di quanto latiti, al di là delle vuote asserzioni di facciata, prova a fare un’ora di supplenza. Il supplente che decide di non ignorare gli esseri umani che ha davanti somiglia a un balordo che una sera in piazza si metta in testa di impicciarsi dei fatti di un gruppone di adolescenti. L’ordinario rapporto asimmetrico tra professore e alunno è fortemente incrinato: conti poco o nulla, ergo quell’ora risulta spesso altamente rivelativa. Vedi quel che è, sotto la finzione del consueto formalismo scolastico.


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Mi incammino verso una prima. All’orizzonte del corridoio un terzetto di fanciulle appare beatamente alle prese con un ordinario TikTok. Ti avvicini, le tiktokers rincasano e si barricano dietro la porta. Dall’interno si odono distintamente barriti, muggiti e latrati. Ti fai coraggio, spalanchi l’antro: la bolgia non cessa, forse s’intensifica. Gli occhi vagano alla ricerca di possibili macachi. Tocca sfoderare il piglio deciso del mandriano, e gridare più di loro, finché gli esagitati siano sedati e seduti. Il peggio, tuttavia, deve ancora venire: quando provo a interloquire, viene il rimpianto delle precedenti urla ferine. Non ritrovo nulla che abbia a che fare con il tremore dei primini, sembrano liceali già belli e fatti. In un mese hanno adempiuto vari riti di iniziazione: il secondo sabato sciopero compatto (causa caldo), corredato il pomeriggio prima dalle minacce in chat nei confronti dei riottosi; il terzo sabato seratona alcolica del liceo in una discoteca fuori città, accompagnati in notturna da mammà.


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Si portano addosso un atroce e sfrontato cinismo. Dichiarano senza remore che la scuola dovrebbe insegnare solo a fare soldi (“l’autonomia finanziaria”, testualmente). Non c’è imbarazzo né ironia o timidezza. Non si vergognano di sostenere che ci vengono solo per obbligo: è così che funziona e non capiscono cosa diavolo vada cercando da loro quando fantastico di “senso” o di “bellezza” del liceo. Non si intravede “una maglia rotta nella rete / che ci stringe”, e molti di loro non hanno neanche quattordici anni: il biberon si avvinghia in un mostruoso connubio con la carta di credito. Forti di appartenere al branco degli omologati, additano come un’aliena l’unica compagna che timidamente alza la mano per confessarmi a bassa voce che lei invece ce l’avrebbe, un po’ di voglia di vivere.

Ecco, signori, questo è il nulla, sotto la scorza della finzione.

Avanziamo rapidamente di cinque anni. Alcune quinte liceali affollano l’aula magna per tre delle 30 ore di orientamento che i potenti hanno decretato per noi. Un esperto di qualcosa parla, nella strafottenza collettiva: chi studia, chi gioca a Fifa, chi si palpa. Sulla scala antincendio nebbie inequivocabili. A un certo momento non identificabile con precisione, l’esperto, ignorato dalla platea rumoreggiante, deve aver smesso di parlare, perché ormai è da parecchio che è rimasto solo e muto alla cattedra, con il telefono in mano (messaggia o cazzeggia, vai a capire). Si lascia che il tempo scorra, le 12:55 appaiono un miraggio lontanissimo. Qualcuno ha girato le sedie, creando dei cerchi. Mancherebbe il falò, a fare i pignoli. O una coppa di fagiolini a cui tagliare le punte.

Ecco, signori, questo è il nulla, sotto la scorza della finzione.

Qual è l’alternativa al nulla che i nostri ragazzi respirano? Il saggio suggerimento di molti educatori è spesso: se non state seguendo, almeno fate finta.

Isoliamo i due arcinoti fenomeni: esiste la classe che rumoreggia e quella che non rumoreggia, perché ognuno sta col telefono. Il primo caso rientra nella tipologia del nulla, il secondo in quella della finzione. Esistono i quaderni immacolati (nulla) e le ricerche copincollate (finzione), le matite che non si sanno tenere in mano (nulla) e le tavole che, secondo un discutibile tariffario, un compagno spaccia a mezza classe (finzione), la scena muta del poverocristo (nulla) e i bla bla bla all’interrogazione programmata (finzione).

Leggo una struggente novella di Verga, alcuni studenti fanno altro. Cos’è meglio? Partire con il pistolotto su (in ordine crescente di importanza) cultura rispetto esami crediti annullamento delle gite oppure lasciare che se ne infischino? Racimolare una partecipazione fittizia oppure mettere in mostra il buco nero? Di giocare al gatto e al topo non se ne parla: se volete fare i topi, qui non troverete il gatto. Non mi entusiasma il nulla ma nemmeno la finzione, preferisco sospirare il miracolo dell’essere.

Nel regno dell’essere si entra in punta di piedi, del tutto disarmati. Non ci sono voti in palio. E se non studi per il ricatto del voto, per cos’altro dovresti farlo? Leggere vuol dire sottrarre due ore alle dinamiche di produzione e consumo, anche qualora si chiamino spiegazione e interrogazione: uno spazio di pensiero, di libertà, di umanità. Siamo in quinta, è l’ultima chiamata. L’anno prossimo nessuno ti proporrà, un venerdì dalle 8 alle 10, di fermarti su qualche pagina di Pirandello o Seneca. Altre incombenze ti travolgeranno, e perfino la facoltà che hai scelto tu potrebbe ridursi a un impiccio di sbobinature ed esoneri da togliersi davanti. Leggere, a quel punto, ti servirà ancora? Se non diventa il tuo habitus, se non ti accorgi che hai bisogno di un po’ d’arte per riconquistare la tua anima, già adesso l’ora di italiano è una farsa.

Bastano tre mesi estivi, del resto, per annientare cinque anni di finzione scolastica: chiuso il sipario della messinscena, quanti sono rimasti – o diventati – amici? Hana, però, mi ha invitato a casa per il suo compleanno, insieme ad altri superstiti di una classe ormai maturata. È la sera di Halloween, eppure non ci servono maschere, per nascondere il nulla. Né trucchi né sottofondi né buio; c’è luce qui, e le anime a nudo, che si raccontano l’inizio d’anno.

Rientrato a casa, mi arriva il messaggio di Andrea: “Comunque io un’aria di verità così non la respiravo da tanto. Sarà che, ora che siamo liberi dagli obblighi, quella di stare insieme diventa una scelta, ma per me gli occhi che brillavano stasera saranno sempre casa. Per questo spingo tanto per leggere insieme. Grazie per aver scelto di stare con noi”.

Questo è l’essere, la scuola vera: scholé, dicevano i greci, intendendo il tempo libero. È il modello per tutte le classi: pensare gli alunni non come fossero di quinta, ma come fossero di sesta. Struggendosi per quel che sarà di loro.

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Tags: Giorgio Gaber

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