Il dramma di Ustica nasconde segreti e misteri. I segreti possono essere identificati, raccolti o desecretati. Possono essere contenuti in una testimonianza, in un rottame, in un tracciato radar. Sono cioè delle informazioni mancanti che possono essere sempre recuperate e, se possibile, rese pubbliche. Il mistero è invece qualcosa di diverso rispetto ad un segreto. Esso è un quadro d’insieme anomalo in cui i tasselli, anche quando sembrano esserci tutti, formano un quadro astratto che non restituisce un senso compiuto. La tragedia di Ustica, 40 anni dopo, nasconde ancora dei segreti che non hanno consentito di trovare la verità di quell’abbattimento. Ma tutta la vicenda resta avvolta nel mistero delle tante anomalie della nostra postura internazionale di quegli anni.
La tragedia di Ustica rappresenta la peggiore tra le stragi avvenute durante la storia della Repubblica, certamente la più oscura e la più fastidiosa per la nostra memoria storica. Non solo per la strage avvenuta, ma anche per l’inconcludenza di decenni di indagini giudiziarie ed in altre sedi che non hanno accertato le verità ma anzi hanno lasciato un inestricabile groviglio di mezze verità e di tante menzogne. Un groviglio che appare non casuale, dove ciascuno può intravedere la verità che fa comodo o nascondere quella pericolosa. I segreti sono intrappolati nei misteri inconfessabili nelle anomalie del sistema politico italiano e del sistema internazionale di quegli anni.
L’imponente opera di inquinamento dei fatti e delle indagini a cui abbiamo assistito spinge molti a continuare a ricercare, ancora a 40 anni di distanza, una chiara verità processuale. Il Copasir ha recentemente chiesto al governo di desecretare ulteriori carte dei nostri servizi di intelligence che potrebbero fare luce su alcuni aspetti chiave della vicenda. C’è da augurarselo, perché ne avrebbero solo da guadagnare la stabilità delle istituzioni e la fiducia nello Stato. Ma la sensazione è che difficilmente potranno venire fuori segreti significativi dalla rilevanza penale.
Potrebbero invece venire fuori elementi che aiutano a chiarire i misteri della geopolitica italiana degli anni settanta ed ottanta, consentendoci di vedere sotto una diversa luce il ruolo giocato dall’Italia nella guerra fredda. Quando un Italia debole, divisa, povera ed uscita sconfitta dalla guerra si trova davanti un inaspettato percorso per la rinascita economica minacciato però dalle divisioni della guerra fredda, dal piombo e dalle bombe del terrorismo interno ed internazionale. La classe dirigente di quegli anni era impegnata con determinazione nel tentativo ambizioso di raccogliere in tempi brevi grandi risultati con poche risorse, andando oltre il ruolo di pedina di frontiera del fianco Sud della Nato.
Nelle carte impolverate dei misteri di Ustica ci sono i segreti mancanti, che possono produrre nuovi elementi processuali; ma anche i frammenti di quel quadro cubista che era la geopolitica italiana degli anni 70 e 80. Da quest’ultimo possiamo attingere anche preziose verità strategiche, insegnamenti da seguire ma anche gravi errori di postura nella politica estera italiana che dipendono da debolezze strutturale che non possono essere corrette dalle esperienze e dalle astuzie con cui si naviga a vista negli spazi geopoliticamente instabili del Mediterraneo.
L’altro grande insegnamento è che la politica estera non può costruirsi senza una solida e condivisa accezione dell’interesse nazionale e di come questo non possa essere il risultato di processi carbonari, di iniziative avventurose o coraggiose di uomini soli; né può appoggiarsi su costruzioni sottobanco, nascoste all’avversione e all’indifferenza della “società civile” e spesso mal tollerate nelle stesse istituzioni.
L’interesse nazionale di lungo periodo non può essere costruito svicolando agilmente tra le politiche delle altre potenze o eleggendosi come l’area franca dove si smorzano e si annullano vettori geopolitici contrapposti. È vero, il vuoto ha il suo ruolo nei rapporti di forza, così come le buffer zone. Ma un Paese troppo grande e troppo centrale come l’Italia non può pensare a ricoprire troppo a lungo questi ruoli senza perdere di rango e venire marginalizzato.
L’Italia degli anni 70 e 80 ambiva a giocare nel Mediterraneo un ruolo più ampio di quello assegnatole dalle sue alleanze multilaterali; sia per la necessità di alimentare lo sviluppo e la ricostruzione del Paese, sia per dare espressione alla nostra particolare propensione geografica. È un processo naturale per ogni Paese, dove l’interesse nazionale non può esaurirsi nelle alleanze multilaterali, sia per gli inevitabili contrasti politici tra alleati che per le insopprimibili differenze geografiche. Ma ciò presuppone una forte compattezza interna nelle scelte internazionali, una condivisa concezione dell’interesse nazionale, un’ampia strategia e soprattutto dotarsi di strumenti di sovranità autonoma e delle risorse per la realizzazione di una politica estera nazionale complementare a quelle multilaterali.
Noi abbiamo invece a lungo voluto sostenere e credere che così non fosse, che la dimensione autonoma della nostra politica estera potesse essere basata sulle tolleranze benevole dei nostri alleati e addirittura sulle nostre debolezze e divisioni politiche che non potevano essere conciliate sul piano interno ma che potevano essere ri-conciliate su quello della politica estera. Ciò ci ha consentito di ampliare i rapporti oltre cortina e quelle con il mondo arabo che proprio in quegli anni entrava in ebollizione con la guerra Iran-Iraq, l’ascesa dell’islamismo politico ed il fenomeno del terrorismo internazionale.
Trasformare le nostre debolezze e divisioni interne in un asset di politica estera era indubbiamente una logica scaltra ma ci ha probabilmente reso vulnerabili in un contesto così infiammabile come quello degli anni 70 e 80, dove il Paese era attraversato da forti ondate di terrorismo, con chiare connessioni internazionali. In quegli anni l’Italia si è trovata ad essere il crocevia di un doppio scenario di guerre sotterranee ed interconnesse, quella fredda tra Est ed Ovest e quella calda che intersecava il Medio oriente. Noi eravamo il baricentro di questa zona di faglia, il cuore di un’ampia regione su cui si scaricavano tensioni geopolitiche enormi ed interessi ampissimi.
Ad eccezione delle Francia, molti dei nostri vicini diretti o prossimi erano attori non apertamente schierati: neutrale la Svizzera, neutrale l’Austria, non allineata la Jugoslavia, non allineata Malta; fuori dalla contrapposizione tra i due blocchi anche l’Albania. E poi vi era la Libia, attore particolarmente indisciplinato, internazionalmente isolato ma fortemente legato all’Italia e che univa rapporti privilegiati con il nostro Paese ad azioni di destabilizzazione nel mondo arabo e nell’Africa Sub-Sahariana con l’appoggio dei russi e del Patto di Varsavia. Il cuore del Mediterraneo centrale, dalla Libia alla Jugoslavia, era un enorme area di faglia ove la penisola italiana, troppo grande ed importante per essere neutralizzata, si incuneava con la sua appartenenza atlantica, esponendo la nostra sicurezza e intrecciando la sicurezza interna e quella internazionale. Il nostro particolare “neutralismo” era nell’abilità di tenere molteplici rapporti contraddittori in parallelo, subendo spinte geopolitiche opposte e controbilanciandole tra loro. In questo eravamo un alleato preziosissimo per Gheddafi, che ci ricambiava con un rapporto sostanzialmente esclusivo ma clandestino. Non è probabilmente un caso che la caduta di Gheddafi avviene poco dopo la regolarizzazione dei rapporti con l’Italia, avvenuta nel 2008 con il Trattato di amicizia italo-libico. Da quel momento viene meno il paradosso italo-libico che aveva comunque una sua logica.
La verità sulla strage di Ustica non è solo la questione di come far luce su un immane tragedia, ma è un passaggio chiave per rileggere e capire la storia della nostra politica estera nel Mediterraneo, il perché di quei nostri giochi di carte sopra e sotto il tavolo, della nostra strategia di trasformare debolezze e vulnerabilità in assetti diplomatici. Giochi che nelle condizioni eccezionali della guerra fredda ed a prezzi molto elevati – e la strage di Ustica è probabilmente uno di questi – hanno consentito all’Italia di mantenere un ruolo nel Mediterraneo utile a noi e non solo a noi.
Anche la nostra postura odierna di politica estera deriva molto da quell’imprinting politico, ma non tiene in conto che quel mondo lì e quel ruolo è irrevocabilmente finito, perché non era costruito su una nostra proiezione di influenza ma sull’arte di bilanciare interessi contrapposti in aree geopoliticamente grigie. Nel momento in cui il vuoto si riempie, gli spazi si attribuiscono e gli attori cambiano, quel modo di essere nel Mediterraneo che ricavava abilmente spazi di autonomia divenendo subalterni alternativamente agli interessi della Nato e a quelli della Libia, appartiene ad una stagione ormai svanita.
Anche la Libia di oggi ha la potenzialità di essere un attore destabilizzante dell’Italia o di controllarla con varie forme di ricatti o di influenza economica. Solo che, a differenza degli anni 80, non ci troviamo più di fronte un attore ostile ma isolato, debole ed integrato con cui qualche patto, pur ingoiando qualche amore boccone, si riesce a portare a casa. Oggi rischiamo di vedere affiorare dalle macerie della Libia nuovi e assertivi attori con cui sarà molto più difficile giocare sotto il tavolo. Ed oggi è necessario fare uno sforzo per ripensare un nuovo ruolo di stare nel Mediterraneo e di relazionarsi con la Libia.
C’è allora da auspicarsi che da nuove carte su Ustica venga fuori non solo una verità giudiziaria soddisfacente ma che si apra anche una riflessione più ampia sulla necessità di trasformare la politica estera italiana verso la Libia e nel Mediterraneo in questa fase nuova ed incognita di destrutturazione del nostro estero vicino.