È curioso l’atteggiamento di “sorpresa” che qualcuno ha assunto di fronte alle recenti dichiarazioni della presidente del Consiglio Meloni in merito al semi-presidenzialismo. Basti ricordare che nel programma della coalizione di centro-destra il primo punto è chiaramente indicato: “Elezione diretta del Presidente della Repubblica”. Insomma, questo è un passaggio cruciale cui il nuovo Governo intende rivolgere il suo impegno. Come è stato ufficialmente annunciato nelle parole pronunciate dalla stessa Meloni nelle dichiarazioni programmatiche innanzi alle Camere: “Vogliamo partire dall’ipotesi di un semipresidenzialismo sul modello francese, che in passato aveva ottenuto un ampio gradimento anche da parte del centrosinistra, ma rimaniamo aperti anche ad altre soluzioni”.
Sono note le premesse di questa impostazione. In estrema sintesi, la nostra forma di governo è stata appositamente disegnata dai costituenti senza un vero pivot istituzionale. E nella prassi si è evoluta – o, più esattamente, involuta – nel segno dell’instabilità, di volta in volta temperata dalla supplenza esercitata, a vario titolo e in diverso modo, prima dal ceto partitico e poi dai Presidenti della Repubblica, o, ancora, dall’ancoraggio al processo di integrazione europea. In generale, è prevalsa la tendenza all’irresponsabilità politica delle istituzioni rappresentative, così come la diffusa debolezza degli strumenti di indirizzo della collettività. Con tutto ciò che ne è conseguito in termini di perdita di autorevolezza del messaggio legislativo, al pari della permanente difficoltà nel riconoscere e nell’affermare gli interessi nazionali verso l’esterno.
Dunque, è chiaro che “passare da una democrazia interloquente a una democrazia decidente”, come ha detto la Presidente Meloni, significa impegnarsi in un processo riformatore ad ampio raggio. E se questa è la prospettiva di cambiamento verso cui ci si vuole rivolgere, l’elezione diretta del Presidente della Repubblica rappresenterebbe, per così dire, la punta più visibile di un progetto che, al momento, prende spunto dal modello francese, ma che, allo stesso tempo, è aperto alla discussione con le opposizioni anche su altre ipotesi.
Da lungo tempo, come noto, si concorda sulla crisi che attanaglia il nostro sistema politico-istituzionale, ma si controverte sul modello da seguire. Le due “grandi riforme” proposte prima dal centro-destra nel 2006, e poi dal centro-sinistra nel 2016, sono state bocciate dai referendum popolari. Entrambe avevano respinto i modelli più netti di democrazia governante, ossia il presidenzialismo e il semi-presidenzialismo; proponendo il rafforzamento dell’esecutivo collegato alla maggioranza parlamentare scaturita dalle elezioni politiche, avevano preferito la strada più morbida del cosiddetto parlamentarismo razionalizzato. Eppure ambedue le riforme hanno egualmente sollevato le medesime aspre critiche sull’eccessiva “verticalizzazione” del potere che si intendeva realizzare, a partire dall’insufficienza dei necessari bilanciamenti.
Insomma, se i due precedenti tentativi sono falliti soprattutto perché chi vi si opponeva ha avuto giuoco facile nel diffondere la paura del “super-Presidente” del Consiglio, è questa la vera sfida da affrontare. Non si tratta tanto di scegliere il modello migliore tra quelli teoricamente disponibili, ma di elaborare una proposta largamente accettata perché capace di incorporare la nuova democrazia decidente in un sistema equilibrato di pesi e contrappesi. Se si riuscirà nell’impresa, si resterà nella storia.
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