Ciao Luis. Ti ho conosciuto, Luis Sepúlveda. Lavoravo da ragazza all’ufficio stampa della tua casa editrice italiana, eri già noto per la tua vita da romanzo, tu che sapevi scrivere romanzi così veri, così avventurosi. Il vecchio che leggeva romanzi d’amore ci aveva parlato di te, dei mesi trascorsi tra gli Indios.
Poi il carcere, per un eterno guerriero della parola che forse avrebbe imbracciato anche il fucile, ma aveva scelto di essere testimone di una possibilità diversa di vita, di giustizia, di armonia con la natura. Il mondo alla fine del mondo (“sono venuto dalla fine del mondo”, dirà tanti anni dopo un papa nato nella lingua di terra dirimpetto alla tua, l’Argentina) raccontava l’esperienza sulle navi di Greenpeace, allora a caccia di balene, sì, ma da salvare. Poi La frontiera scomparsa, il tuo viaggio rocambolesco tra l’uno e l’altro confine dei paesi latinoamericani travolti da dittature e guerriglie, per fuggire al Cile di Pinochet, il tuo Cile piombato nell’orrore. Fino all’esilio, la Spagna che ti ha accolto. Accoglie oggi la tua morte, dopo la malattia che non distingue tra gli uomini, e miete vite tra i primi e gli ultimi, tra i famosi e gli umili.
Che sarà stato per lui, pirata dei sette mari, passeur, viaggiatore sempre sospeso sul limite, di una terra e di un sogno, trascorrere e soffrire questo lungo mese in un letto d’ospedale, silenzioso. Che storie avrà pensato che non leggeremo mai.
Lo ricordo esuberante di vita e guascone, in una primavera romana, affamato di bellezza e di esperienze nuove, di libertà. Ricordo come incantava con la voce arrochita dalle mille sigarette i giornalisti affascinati dai suoi tratti andini, il suo volto segnato, un gin tonic dopo altro, come fossero acqua. Poi, una sera, dopo una presentazione fortunata del libro, quella richiesta: “andiamo a ballare!”, e un locale romano di fama, un po’ fuori tempo, dolce vita d’antan, dove un po’ la vacanza, un po’ l’alcol lo portarono a salire sui tavoli e ballare, mentre tutti noi prima timorosi poi scatenati gli battevamo le mani, a tenere il ritmo…
Così attaccato alla realtà, così comunista senza essere ideologico, perché la sua pelle era stata marchiata davvero dall’ingiustizia e dalla lotta, così poetico, avrei scoperto a breve, nella delicata storia di una gabbianella, metafora dell’amicizia che sostiene, del piccolo che si fa grande, dei puri di cuore che vincono il male, con il bene e l’intelligenza. Ciao Luis, sorvola la tua terra, dalle alito perché le tue storie non vadano perdute.