"La morte di Auguste" di Georges Simenon mette in scena l'ossessione per la ricchezza e l'estraneità drammatica che questa produce, lasciando il vuoto

Mentre si girano le pagine de La morte di Auguste di Georges Simenon (Adelphi, 2025), uscito nel 1966, e il romanzo scivola velocemente verso le ultime righe – e noi ci chiediamo perché mai durino sempre così maledettamente poco i libri di Simenon?! – può venire in mente al lettore italiano, per associazione d’idee, La roba di Giovanni Verga.



E, in fondo, anche se la storia è diversissima, per protagonisti, ambientazione, struttura, davvero, mai come in questo romanzo, Simenon ha saputo mettere al centro del racconto l’ossessione per “la roba”, i soldi, la ricchezza.

Ricchezza che il vecchio Auguste Mature, giunto dalla campagna dell’Alvernia a Parigi decenni prima, ha accumulato senza dubbio alcuno, dato che il suo bistrot, aperto nel quartiere delle Halles, quello dei mercati generali, da locale popolare dove gustare piatti semplici e robusti, a base di carne di maiale, insaccati e formaggi, è diventato un ristorante rinomato – oggi diremmo “stellato” – specializzato in impeccabili pranzi e cene a base di piatti della tradizione francese.



Ad aiutare il padre nella conduzione del locale è rimasto, negli anni, il figlio Antoine, mentre gli altri due fratelli, Ferdinand e Bernard, hanno preso strade diverse: il primo è diventato giudice, è un professionista conosciuto, stimato, forse un poco rigido, ma, ahimè, sempre a corto di liquidità, soprattutto da quando ha comprato una nuova casa, più consona al suo ruolo, ma molto dispendiosa e difficile da mantenere con lo stipendio da magistrato.

Quanto al terzogenito, Bernard, non ha mai avuto un impiego regolare: fa una vita sregolata, bevendo smodatamente nei bar, e si impegola sempre in affari e speculazioni che si rivelano immancabilmente avventati, fallimentari, e che lo lasciano pieno di debiti e bisognoso che il fratello Antoine gli allunghi qualche banconota per ripianare i suoi debiti.



In fondo, Bernard non è mai cresciuto del tutto: se lo si contrariava, specialmente quando era alterato dall’alcool, allora “poteva dare fuori di matto, pestare i piedi come un bambino e vomitare improperi contro tutti”.

Quando il vecchio Auguste, il patriarca, che ancora lavora nel ristorante di famiglia, crolla a terra, stroncato da un ictus, e muore poco dopo, esplodono i conflitti: ma sono conflitti, come sempre nei romanzi di Simenon, in cui la rispettabilità borghese e le forme sono totem che non possono mai essere abbattuti; per cui le contrapposizioni interne alla famiglia, per quanto aspre, non sono mai urlate e non degenerano mai in scenate con piatti che volano, questo proprio no.

Il conflitto, qui, si fa strada nel silenzio, accompagnato da un serpeggiante senso di estraneità che travolge il mondo di Antoine. In primo luogo, una volta morto il padre si pone il problema della successione – in fondo Auguste è ormai un uomo decisamente benestante, dato che il ristorante fruttava ormai cifre di tutto rispetto – e del testamento, se mai ce n’è uno.

Auguste, infatti, era un uomo che si era fatto da sé con il lavoro tenace, continuo, metodico; ma era un uomo che veniva dalla campagna e che, pur vivendo a Parigi da decenni, ancora nutriva diffidenza per gli avvocati dei grandi studi legali di città, per le banche, per tutto quello che esulava dal piccolo mondo rassicurante delle Halles, dei mercati generali, dove i commercianti e i fornitori usano ancora i contanti.

(Pixabay)

Eppure, di soldi devono essercene, e molti, calcolano i figli, soprattutto Ferdinand e Bernard: almeno un milione di franchi. Dove possono essere finiti? Naturalmente, nel mirino finisce subito Antoine: in fondo, non era lui dei tre fratelli quello rimasto più vicino al padre?

Non era con lui che il vecchio Auguste divideva annualmente, in contanti, la metà degli introiti del ristorante? E questo senza che fosse mai stato formalizzato il passaggio di una quota del locale al figlio, senza che fosse mai stato riconosciuto come socio con un atto notarile legalmente inoppugnabile.

Ed ecco così che Antoine scopre un sentimento che prima aveva forse già provato, ma che era sempre rimasto sopito: il senso di estraneità nei confronti dei due fratelli, i quali, soprattutto Bernard (mentre Ferdinand è spalleggiato e spinto dalla moglie Véronique), sospettano di lui, e ritengono che abbia nascosto loro quanto a essi spetterebbe dell’eredità paterna.

Soprattutto, Antoine capisce, a poco a poco, lentamente e con una incredulità dolorosa, che i due fratelli, pur così differenti fra loro, lo considerano alla stessa maniera, e, quel che è peggio, immaginano che Antoine stesso li consideri in modo uguale, l’austero uomo di legge e il frequentatore di bar sordidi: due poveracci.

Due poveracci che proprio non possono tollerare che Antoine, il quale, in fin dei conti, “era quello dei tre che aveva studiato meno, con ogni probabilità anche il meno intelligente”, ora si riveli il più ricco. E soprattutto, come rileva amaramente il fratello magistrato pensando al suo matrimonio, inerte, con l’algida e rispettabilissima Véronique, la moglie di Antoine, Fernande, sarà anche una che aveva battuto il marciapiede in gioventù, ma adesso “i due formavano una vera coppia: gli bastava uno sguardo per capirsi”.

Il vecchio Auguste, come si scoprirà, provava nei confronti dei documenti scritti, della carta bollata, dei registri degli incassi quella radicata antipatia tipica di chi era cresciuto nella diffidenza che nasce dalla povertà profonda, in un villaggio sperduto; e quando i figli risaliranno a una cassetta di sicurezza, e al suo contenuto, avranno un’amara sorpresa.

Infatti, Auguste aveva investito il suo denaro in titoli-spazzatura, procuratigli da un maneggione che si muoveva ai limiti della legge e che si rendeva disponibile a svolgere piccoli servizi di assistenza legale ai commercianti del quartiere.

Forse, ben prima di morire Auguste si era reso conto della truffa in cui era incappato, ma non si era nemmeno unito al coro di denunce che avevano sommerso il truffatore. “Doveva aver vissuto mesi, roso dalla vergogna, sapendo che quando se ne fosse andato avrebbe lasciato dietro di sé rancore anziché rimpianto”: così pensa Antoine, in cui nasce la certezza “di non aver mai conosciuto così bene suo padre” come dopo aver scoperto questi fatti, che confermavano “il suo atavismo contadino, la sua umiltà, il suo orgoglio”.

Ma l’eredità più importante che il vecchio Auguste lascia al figlio Antoine è un’altra: la consapevolezza ormai lampante dell’assoluta estraneità dei membri superstiti della sua famiglia, che, durante il funerale, Antoine osserva bene in viso, rilevando che i loro volti sono vuoti quanto il suo. Conclusione spietata per uno dei più spietati e secchi romanzi di quel Maestro del romanzo che è stato Simenon.

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