La fine del regime di Assad è certamente una svolta per la Siria. Solo il tempo e i fatti potranno dire se in meglio o in peggio. Ora spiega Nabil al Lao, siriano che vive in Italia, esperto di geopolitica e docente di lingua e traduzione francese e araba, il Paese verrà ricostruito prendendo a modello la Turchia, che ha preparato i jihadisti di Hayat Tahrir al Sham e probabilmente sosterrà il loro insediamento al governo, contribuendo alla ricostruzione insieme al Qatar. Una partita, questa, da cui l’Italia potrebbe restare fuori: la riapertura dell’ambasciata a Damasco nei mesi scorsi l’ha messa in cattiva luce. Nabil al Lao ha lasciato la Siria nel 2013: è stato docente universitario e fondatore dell’Opéra di Damasco, ma precettato come interprete di Hafez al Assad e del figlio Bashar, ora riparato in Russia.
Cosa ha significato il regime di Assad per la Siria?
Sono nato sotto questa dittatura. Prima di Bashar al Assad c’era il padre Hafiz, che ha preso il potere negli anni 70, tenendolo fino al 2000, quando è subentrato il figlio. Avevo 14 anni quando Hafez andò al potere. Aveva una mentalità staliniana: l’ho sentito con le mie orecchie dire che considerava suo maestro Nicolae Ceausescu. La sua famiglia ha governato con il ferro e con il fuoco, mettendo la gente in prigione: ho visto questo potere da vicinissimo.
Qual era il clima della Siria sotto gli Assad?
Governavano con il terrore. Tutto il mondo vede ora le immagini delle fosse comuni dove venivano gettate le persone uccise, ma nel sud del Paese se ne scopriranno di enormi, riempite di cadaveri per mano del regime e di Hezbollah, che ha massacrato i siriani per conto di Assad.
Come esercitavano il terrore?
Era una repressione sistematica. Dalla scuola primaria fino all’università avevamo sempre la divisa militare, anche le donne. La mia generazione, quella precedente e quelle successive hanno vissuto questa presenza fortissima della tirannia nel quotidiano. Un nonno poteva aver paura dei nipoti, non che fossero spie, ma che, giocando con gli altri bambini, ripetessero anche solo una barzelletta raccontata da lui. Fosse stata invisa al regime, avrebbe potuto essere arrestato e sparire, passare 30-40 anni di prigione. Il silenzio era una regola: una vita molto vicina a quella dei russi ai tempi di Stalin.
Come è venuto in contatto diretto con il regime?
Ho studiato all’estero, sono stato docente universitario e professore al Centro di ricerca scientifica, direttore di Conservatorio, fondatore e direttore dell’Opéra di Damasco. Poi sono stato nominato rettore di una grande università privata. Nel 1998, alla luce del mio percorso intellettuale e accademico, mi hanno interpellato perché cercavano un interprete per Hafiz al Assad. Ho lavorato due anni per lui, e nel frattempo mi hanno ordinato, insieme ad altri intellettuali, di preparare il figlio alla successione. Quando è andato al potere, nel 2000, sono rimasto con lui fino al 2011, all’inizio della rivoluzione. Non avevo un ufficio nel palazzo presidenziale, perché continuavo la mia carriera universitaria, culturale, musicale. Mi chiamavano quando c’era bisogno, quando arrivava un presidente straniero o era in vista un viaggio all’estero. Ho conosciuto molti capi di Stato perché ero interprete di francese.
Che persona è Bashar al Assad?
Quando l’ho conosciuto era un giovane medico che voleva imparare a governare per scelta di suo padre. Secondo me, però, lui non è medico, né militare, dirigente o presidente: è un viziato capace di mentire come bere l’acqua. La Siria storicamente è stata una terra di grandi civiltà, ma questa dinastia ha distrutto tutto.
Perché ha abbandonato il Paese?
Lavoravo per il ministero della Ricerca e in parte per quello della Cultura. Ho capito la deriva assoluta della vita politica del regime quando il regime, complice Hezbollah, ha ucciso nel 2005 l’ex primo ministro libanese Rafiq al Hariri. So, perché l’ho tradotto io, che Jacques Chirac aveva chiesto ad Assad di non toccare Hariri, che era amico personale del presidente francese, ma è stato ucciso lo stesso. Quando ho finito il mio mandato, ho scritto una lettera nella quale comunicavo che volevo tornare alla vita accademica. Ho capito che non potevo andare avanti. Quando la rivoluzione è scoppiata nel sud del Paese, Bashar e i suoi servizi hanno mandato i soldati a sparare alla gente per strada: lì si è capito che era iniziata la fine del regime, che si stava concludendo in un bagno di sangue. Appena tornato, mi hanno nominato rettore di una università privata: ho scelto di uscire dal settore pubblico.
Quindi cosa è successo?
Mi hanno arrestato all’università. Sotto l’ufficio del direttore dell’università di Damasco c’erano locali per interrogare i docenti. Ne sono uscito e ho subito rassegnato le dimissioni: due giorni dopo mi hanno convocato per un altro interrogatorio. Sono riuscito a convincerli che volevo ritirarmi per ragioni personali. Ho preso mia madre e sono andato in Libano. Poi mi hanno contattato per una futura nomina in un governo di unità nazionale, nel 2013. Mi hanno chiesto di collaborare: Assad voleva una squadra di professori laureati in Europa, per dare un messaggio alla comunità internazionale. Ma il presidente aveva dichiarato guerra al suo popolo, allora ho risposto che per il momento non potevo far parte di questo governo. L’hanno presa malissimo: dire no al dittatore voleva dire essere contro di lui.
Chi ha preso il potere oggi in Siria? Alcuni li chiamano ribelli, altri terroristi, jihadisti, ma chi rappresentano veramente?
Cerco di non usare una terminologia contaminata. In Occidente c’è un problema di islamofobia, anche se in parte giustificata. Comunque sia, per prima cosa sono tutti siriani: ho ascoltato diverse loro dichiarazioni per capire la loro identità culturale. Ho sentito persone che parlano il linguaggio comune siriano, con un accento da contadini. Sono i ragazzi che abbiamo visto nel 2013 sfollati, perseguitati, con le famiglie massacrate, cui sono stati confiscati e distrutti i beni. Allora avevano 8-9-10 anni o poco più, ora sono tornati per la vendetta contadina. E l’hanno fatta.
Sono anche jihadisti?
Per quello che ho visto e studiato, il 35% di loro sono jihadisti della “teoria del nemico vicino”, che prendono di mira i regimi corrotti da abbattere. L’altra teoria è quella “del nemico lontano”, riguarda coloro che, per esempio, hanno colpito gli USA perché ritengono che vada preso di mira il “nemico lontano” che appoggia il “nemico vicino”. I ribelli, quindi, sono siriani, figli di coloro che sono stati massacrati e offesi dal regime, tornati per la loro vendetta personale, giustificata dalla corruzione e dalla repressione sanguinaria di questo regime, coperta con la vendetta del popolo. Per questo sono stati accolti come liberatori.
Che effetto le ha fatto vederli a Damasco?
Sono laico, non ho niente a che vedere con la loro visione del mondo, ma sono felicissimo, mi sento un siriano libero.
Si discute molto del fatto che si siano presentati come moderati anche se la loro storia non è certo quella di campioni della moderazione. Chi li ha istruiti in questo senso?
Sono arrivati in modo molto ordinato, organizzato, ma nessuno di loro ha il calibro per gestire il potere politico. E non hanno neanche questa pretesa. Hanno solo realizzato una vendetta molto giustificata: anch’io ho questa rabbia incredibile dentro di me. Tutti i miei beni sono stati saccheggiati.
Hanno chi possa guidarli, una classe dirigente?
Tra di loro no, ma sono stati formati dai turchi. Tutti i soldati, ufficiali e sottufficiali scappati dall’esercito siriano perché non volevano sparare sulla gente sono andati in Turchia, dove li hanno accolti e preparati. I jihadisti sono diventati Fratelli musulmani alla turca. Non hanno lo spessore per governare. Al Jawlani è cugino del famoso ministro siriano degli Esteri Faruk al Sharaa, con cui io ho lavorato. Lui può entrare a far parte del governo, se non altro perché ha il merito di aver liberato la Siria dal regime, dall’esercito iraniano, dagli Hezbollah libanesi, da tutti i criminali fanatici portati dall’Iran e usati da Assad per colpire il suo popolo.
Che governo ci dobbiamo aspettare ora in Siria?
Il primo sarà un governo di salvataggio, che durerà fino a marzo, costituito dalla loro comunità di combattenti, ingegneri, esperti economici. Nella loro permanenza a Idlib, dove sono stati continuamente bombardati dal regime e dai russi, hanno inventato un modello per gestire la vita quotidiana di 4 milioni e 700mila persone. Hanno gestito tutto cercando di rendere meno complicata possibile la vita alla gente. Per i primi tre mesi lavorerà la squadra che ha governato a Idlib. La seconda tappa sarà quella di un governo provvisorio di 12-18 mesi per preparare una prima elezione presidenziale sotto il controllo dell’ONU e della comunità internazionale.
Come organizzeranno il Paese?
Si pensa di realizzare un’economia liberale, competitiva, sul modello turco e degli Emirati Arabi. Per un Paese chiuso per 70 anni in un’economia sovietica non è niente male. La capacità della lira sta già migliorando.
Riusciranno a realizzare un governo democratico?
Nessun Paese arabo è una democrazia secondo il modello europeo. Non credo, però, che si possa tornare a un regime di terrore. Sono inquilini del potere da una settimana, bisogna lasciargli il tempo di provare. La Turchia potrebbe essere un modello anche dal punto di vista istituzionale. In meno di 24 ore è arrivata una delegazione turca di altissimo livello con il ministro degli Esteri Hakan Fidan. La priorità va agli scambi commerciali Siria-Turchia, mentre la ricostruzione sarà gestita da Ankara e dal Qatar. L’Italia, che era il primo partner economico della Siria, ha perso un’occasione. Paga la decisione di aver riaperto questa estate (unico Paese dello spazio Schengen) l’ambasciata in Siria quando ancora c’era Assad: è passato il messaggio che l’Europa stava tornando a Damasco e normalizzando i rapporti con il regime.
(Paolo Rossetti)
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