Un utile sondaggio in tema di giustizia: sfiducia diffusa, consenso trasversale per la riforma, percezione di politicizzazione della magistratura
I lavori parlamentari sono fermi per le vacanze estive, ma a settembre riprenderà l’iter del ddl costituzionale Meloni-Nordio sulla riforma della magistratura, che prevede la separazione delle carriere. E, complici anche le notizie di cronaca giudiziaria, con inchieste che interessano sia Ministri che figure politiche locali, in Italia il tema della giustizia si conferma come uno dei più divisivi dell’opinione pubblica. Ne abbiamo parlato con Arnaldo Ferrari Nasi, sociologo e analista, che con la sua AnalisiPolitica ha da poco realizzato un sondaggio su questi argomenti, con interessanti paragoni storici.
Il suo ultimo sondaggio fotografa un’Italia divisa in due sulla fiducia nella giustizia. Ce ne può illustrare il dato più saliente?
Sì, parliamo di una domanda classica: “Lei ha fiducia o non ha fiducia nella giustizia in Italia?”. Nel 2013 era fiducioso il 47,5%, nel 2022 il 39,5%, oggi il 41,57%. È un dato stabile nella sua drammaticità: significa che c’è una maggioranza, anche se non schiacciante, che dichiara poca o nessuna fiducia. L’immagine è quella di un Paese spaccato a metà su uno dei tre poteri dello Stato.
Cosa intende dire “spaccato a metà”?
Che la divisione attraversa età, territori e schieramenti. Certo, sono un po’ più sfiduciate le persone fra i 40 e i 65 anni, chi ha un titolo di studio basso e chi vive nelle aree più ricche del Nord e in Toscana. E dal punto di vista politico, la sfiducia è più marcata nel centrodestra, attorno ai due terzi, ma attenzione: anche nel centrosinistra si aggira sul 45%. Questo vuol dire che il sentimento è generalizzato.
In altre parole, secondo lei non è una questione di schieramento?
Esatto. Se fosse solo una linea di frattura politica, avremmo percentuali molto diverse tra destra e sinistra. Invece il “no” alla fiducia è trasversale. Questo è uno dei dati più controintuitivi: la narrativa politica vorrebbe la sfiducia concentrata su un solo campo, ma i numeri non lo confermano.
Eppure sulla riforma della giustizia, il quadro sembra opposto…
Sì, qui succede qualcosa di sorprendente: non più un Paese spaccato, ma quasi unito. Alla domanda “Il sistema della giustizia ha bisogno di una profonda riforma?”, nel 2013 il sì era al 95%, oggi è all’84%. È ancora un consenso altissimo, soprattutto se consideriamo che dal 2022 se ne parla molto di più per via delle iniziative del Governo Meloni. Anche chi è distante politicamente dall’Esecutivo, in larga parte, vuole la riforma.
Cosa significa, a suo avviso?
Che esiste un bisogno condiviso di cambiare, al di là del colore politico. Questo è un dato che dovrebbe far riflettere: nel dibattito parlamentare il tema divide, nell’opinione pubblica unisce.
Veniamo a un altro dato forte: la percezione di politicizzazione della magistratura.
Quando chiediamo se “i magistrati agiscono sovente con fini politici”, nel 2007 il 56% era d’accordo, nel 2017 il 62%, nel 2023 il 69%. In vent’anni, l’idea che una parte della magistratura sia politicizzata è cresciuta costantemente. E ripeto: parliamo di “sovente”, non di “sempre”. Non è un attacco alla categoria, ma è una percezione radicata.
Quindi, anche qui, non un dato occasionale ma strutturale?
Esatto. Questi numeri non nascono da un episodio specifico. Sono la fotografia di un’opinione che attraversa il tempo e resiste ai cambi di governo.
E sulla responsabilità civile dei magistrati?
È uno dei dati più eclatanti: sopra il 90% costante negli anni. La domanda è semplice: “È giusto che un magistrato sia civilmente responsabile per errori commessi?”. Quasi tutti rispondono sì. Poi sappiamo che in realtà la legge esiste dagli anni ’90 ma con limiti tali che i casi reali si contano sulle dita.
Mi sembra che lei dia grande peso alla continuità dei dati…
Sì, perché è la prova che certe percezioni non sono umorali. Il mio mestiere non è indovinare l’umore del giorno, ma capire tendenze. Se su vent’anni vedo oscillazioni minime, vuol dire che ho davanti un fenomeno stabile.
In conclusione, cosa dovrebbero fare politica e istituzioni con questi numeri?
Prima di tutto, leggerli senza pregiudizi. Non usarli per dire “ho ragione io”, ma per capire che il Paese chiede fiducia e riforme insieme. E soprattutto ricordarsi che, come dico sempre, con i numeri si scappa poco.
(Marco Rinaldi)
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