Quota 100 relegata in soffitta dalla Legge di bilancio 2022 approvata dal governo, per far posto prima a Quota 102 e poi a un graduale ritorno alla legge Fornero. Reddito di cittadinanza rifinanziato dalla manovra con un miliardo in più, ma con norme più stringenti per i beneficiari e una stretta sui controlli. Ddl Zan bocciato al Senato e bloccato per almeno sei mesi, dopo di che sarà necessario ripartire da capo. I temi sociali – dal lavoro ai diritti – hanno occupato le prime pagine dei giornali e hanno, anche aspramente, diviso le forze politiche. Ma, in base ai sondaggi, qual è il pensiero degli italiani? Quanto condividono le scelte del Parlamento e del governo Draghi? Difendere temi identitari e misure bandiere sposta quote di consenso? Ne abbiamo parlato con Enzo Risso, direttore scientifico di Ipsos, che un mese e mezzo fa aveva fotografato un Italia divisa in due sul Rdc ma compatta nel respingere la legge Fornero.
E oggi, dopo la presentazione della manovra, come è cambiato il sentiment degli italiani verso Quota 100 e legge Fornero?
Il 27% degli elettori ritiene giusto intervenire su Quota 100, considerata troppo costosa per il bilancio pubblico, mentre il 56% considera importante consentire agli italiani il pensionamento prima di quanto previsto dalla legge Fornero. Resta, quindi, la bocciatura della Fornero, anche dal 51% degli elettori Pd, e si pensa sia utile consentire alle persone delle finestre di fuoruscita tra i 63 e i 65 anni. Non sono così tante le persone che vogliono arrivare fino a 70 anni per andare in pensione. La discussione ora si concentra su quale può essere la misura più adeguata a emendare la Fornero per transitare da Quota 100 verso una nuova soluzione.
Il governo sembra propenso a sperimentare Quota 102. Può essere una soluzione apprezzabile e convincente per gli italiani?
Prima gli italiani devono capire di cosa si parla, non basta dare numeri come al lotto. Anche perché la seconda fascia della generazione dei Baby boomers e la Generazione X, cioè tutti i nati degli anni Sessanta che stanno arrivando ora alla pensione, hanno avuto un processo di ingresso nel mondo del lavoro piuttosto lento, specie chi ha i titoli di studio più alti: non ha trovato subito un posto fisso e non ha iniziato subito a versare i contributi. Questo è un aspetto con cui è necessario fare i conti. Bisogna ragionare su come è stato il mondo del lavoro negli ultimi 30 anni.
Intanto operai, impiegati e professionisti sono contrari al taglio di Quota 100. Un gradimento trasversale che però non trova riscontro nell’applicazione pratica della misura. Perché questo gap?
Da un lato, l’idea di non avere una prospettiva lontana di andare in pensione favorisce l’apprezzamento per Quota 100, ma dall’altro, proprio per le contraddizioni ricordate poc’anzi, c’è una generazione che non è entrata subito nel mondo del lavoro con un contratto a tempo indeterminato, ha attraversato una fase più o meno lunga di precariato e si è trovata nel mezzo non solo del passaggio dal calcolo retributivo a quello contributivo, ma anche della crescente flessibilizzazione dei contratti di lavoro. Per una fascia di questi soggetti Quota 100 resta lontana.
A livello territoriale spicca il 47% di chi vorrebbe abolire Quota 100 nel Nord-Est, tradizionale bacino elettorale della Lega. Come si spiega la contraddizione?
Premesso che in quel Nord-Est rientra anche l’Emilia-Romagna, non c’è alcun legame diretto con la posizione politica. Nel Nord-Est, poi, è presente tutto un mondo fatto di partite Iva, commercianti, artigiani e piccoli imprenditori che non è così favorevole a Quota 100. Nella società convivono molte contraddizioni e molte sfaccettature.
Nella Legge di bilancio approvata dal governo c’è anche il rifinanziamento del Reddito di cittadinanza, ma con alcune novità, dalla stretta sui controlli alla “spinta” affinché i beneficiari accettino più attivamente un posto di lavoro. Prima della manovra un italiano su due voleva che il Rdc fosse modificato. Si va nella direzione auspicata dal sentiment degli italiani?
Direi di sì, soprattutto perché veniva auspicato che il reddito di cittadinanza non diventasse una sorta di assegno permanente, di contributo a pioggia, quanto uno strumento di politiche attive, per sostenere cioè le persone nel passaggio da un lavoro a un altro.
È ancora il lavoro la preoccupazione maggiore degli italiani?
Per il 51% sì e il nostro paese resta al terzo posto nella classifica mondiale, superato solo da Sudafrica (67%) e Spagna (54%). In coda alla classifica troviamo Germania (10%), Gran Bretagna (16%), Stati Uniti e Francia (19%).
A livello globale?
A ottobre, per la prima volta da un anno e mezzo, il tema della povertà e delle diseguaglianze sociali, assieme al lavoro, ha superato il timore per il coronavirus e l’emergenza sanitaria.
Tradotto in numeri?
È così in Germania, dove il 39% dei tedeschi ha paura delle diseguaglianze sociali, in Francia e nel Regno Unito, entrambe al 31%, mentre in Italia ci fermiamo al 28%. L’aumento delle diseguaglianze è avvertito in modo molto forte nonostante non ci sia una tensione sul lavoro come da noi. La società dell’incertezza avverte con maggiore acutezza la differenza tra chi può e chi non può.
Sarà una campagna elettorale continua, almeno fino all’elezione del Presidente della Repubblica, quindi sicuramente fino all’approvazione della Legge di bilancio 2022. Su questi temi sociali – lavoro, povertà, pensioni – assisteremo a posizionamenti dei vari partiti anche in chiave elettorale?
Noi ci troviamo di fronte a un’esperienza di governo con forze e schieramenti differenti ma segnata da una forte unità d’intenti. Questo comporta il fatto che ogni forza politica non può sparire, ma ha l’esigenza di sventolare e difendere le proprie bandiere tematiche e identitarie. Il M5s, per esempio, ha il suo asset nel Rdc e questo governo di certo non poteva abolirlo. Il Pd gioca su più terreni, dal lavoro alla salute.
E la Lega?
La Lega non ha solo le pensioni, ma anche l’asset delle tasse e ultimamente sta spingendo molto sul lavoro. Non solo: deve recuperare consensi, fuoriusciti verso Fratelli d’Italia, marcando stretto i temi della sicurezza e dell’immigrazione, da una posizione comunque di governo. Quindi ogni partito cerca di ancorarsi ad alcuni elementi identitari, sapendo comunque che deve sempre mediare all’interno di una maggioranza disomogenea. Perciò assisteremo a continue rivendicazioni.
È una strategia che funziona? Si notano spostamenti di consenso elettorale ogniqualvolta un partito fa il proprio alzabandiera programmatico?
È una strategia contenitiva-identitaria che perseguono tutti, ma non si vedono grandi sommovimenti. L’ultimo è stato quello relativo alla perdita di consensi che ha subìto Fratelli d’Italia per la vicenda Forza Nuova: un pezzo di elettorato centrista si è un po’ distaccato in questa fase dalla Meloni. Le bandiere identitarie servono comunque a marcare il territorio, a richiamare gli elettori che seguono distrattamente, non con la stessa assiduità di giornali e media, le vicende politiche.
I temi sociali quanto possono influire sul gradimento del governo e del premier Draghi?
Pochissimo: la fiducia in Draghi ruota sempre attorno al 60%.
Dopo il G-20 e in pieno CoP26, quanto sono sentiti oggi dagli italiani i temi ambientali? L’ambiente e la sostenibilità quanto possono pesare nel far cambiare le intenzioni di voto degli italiani?
Rispetto a vent’anni fa, il tema dell’ambiente ha cambiato identità.
In che senso?
Da tema elitario e distintivo, sull’onda degli effetti legati ai cambiamenti climatici che viviamo è diventato un valore portante. E c’è un aspetto importante da sottolineare.
Quale?
Nell’opinione pubblica, fra i soggetti che si devono impegnare sulla via della sostenibilità, la responsabilità maggiore (lo dice il 54% degli italiani) spetta alle imprese, poi vengono i governi (47%) e al terzo posto i cittadini (35%). Questa posizione – che comunque si riscontra anche a livello globale, dove in discussione è il modello liberista che sacrifica tutto al mero profitto – ha una ricaduta concreta: gli italiani sono poco propensi a pagare in più per i prodotti green, perché pensano che le imprese debbano di per sé essere sostenibili, senza scaricarne i costi sui consumatori.
In tema di diritti, il dibattito politico è stato a lungo monopolizzato dal ddl Zan, che poi, una volta arrivato al redde rationem di un voto muro contro muro, è stato bocciato e bloccato dal Senato. Di quanto consenso godeva fra gli italiani il ddl Zan? Ed è un tema più divisivo per la politica che per la società italiana?
Il 57% degli italiani ritiene che esista oggettivamente un problema di discriminazione su base religiosa, etnica o di orientamento sessuale. Questa convinzione è più marcata nell’elettorato del Pd e del M5s, dove supera il 70%, ma è presente in misura consistente anche negli elettorati di Forza Italia (55%) e Lega (44%). Quanto al ddl Zan, c’era una maggioranza relativa del 49% d’accordo con la legge, un 31% contrario e un 20% che non aveva un’opinione chiara. Con differenze più evidenti negli elettorati: nel Pd i favorevoli erano al 70%, fra i Cinquestelle arrivavano attorno all’80%, mentre nella Lega i contrari erano al 62% e in quelli di FI oscillavano sul 40% circa. Ma anche in queste forze politiche non mancavano coloro che erano d’accordo in linea di principio con il ddl Zan.
Si può allora dire che il ddl Zan portava alla ribalta un problema di discriminazione sentito dagli italiani, senza però offrire una soluzione ritenuta adeguata e giusta?
È una forzatura. Direi piuttosto che nell’opinione pubblica c’è una quota maggioritaria infastidita da qualunque forma di discriminazione. Esiste, poi, una parte minoritaria più blanda, più fiacca, meno interessata al tema.
(Marco Biscella)
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