Sono delle cash cow, delle mucche da mungere per avere contanti, denaro fresco. Le automobili diesel e benzina, quelle classiche che non hanno neanche una piccolissima batteria per potersi vantare della definizione mild hybrid, erano il fiore all’occhiello dell’intera industria meccanica europea grazie alla capacità di ingegneri italiani e tedeschi che erano riusciti nello stesso tempo ad aumentare la potenza dei motori e a ridurre i consumi e le emissioni. Erano ammirate in tutto il mondo e, ormai, anche se sono ancora il 95% del mercato, sono rilegate nell’angolo più buio dei concessionari.
Adesso sono soltanto buone a far quadrare i conti delle case automobilistiche, almeno fino a quando sarà possibile. Quindi zero investimenti in qualsiasi campo e un lavoro certosino per ridurre le spese cercando, nello stesso tempo, di aumentare i prezzi.
Questi ultimi sono aumentati in media del 50% negli ultimi dieci anni, un’enormità se consideriamo che le auto sono rimaste più o meno le stesse. Qualche motore nuovo, un po’ di elettronica a basso costo, qualche optional di sicurezza che, nel frattempo, è diventato di serie, magari, anche perché obbligatorio sulle auto nuove. Ma nulla di più. I nuovi modelli nascono su piattaforme già pensate per l’elettrico che, se continuiamo a ragionare sulla base della matrice di Boston Consulting Group, sono le Star del settore anche se nessuno è in grado di dire se gli automobilisti, nonostante i Governi si svenino per sovvenzionarle, le compreranno davvero.
Nel frattempo sono anche finite le campagne di promozione tv per le nuove-vecchie auto con motore termico perché costano troppo ed è partita la corsa al risparmio a scapito della qualità degli interni, delle plastiche usate, dei rivestimenti. Ai fornitori vengono chiesti sacrifici e loro cercano di risparmiare dove possono perché l’alternativa è chiudere come hanno già fatto alcuni. Il modello da seguire è quello della Dacia: auto spartane per chi è costretto a usarle, non se la sente o non può proprio comprare un veicolo con la sua bella batteria che occupa una buona parte del vecchio bagagliaio. Questa categoria paga e continuerà a pagare il prezzo dell’elettrificazione, ma dare addosso all’industria automobilistica sarebbe non solo sbagliato, ma anche ingiusto. Cosa possono fare se la politica, tutta, gli chiede di mettere miliardi di euro su automobili che in pochi sono disposti a comprare? I soldi per investire in ricerca, ingegnerizzazione, produzione, nuovi fornitori e innovazione di prodotto da qualche parte devono uscire, almeno fino a quando sarà possibile farlo. Poi nel 2030 o 2035, a seconda dell’età del leader politico che presenta la proposta di messa al bando delle auto a motore termico, si vedrà.
Se spingere a velocità folle aziende che occupano milioni di persone in una strada senza uscita che porta direttamente a un baratro non fosse una cosa serissima, ci sarebbe da scherzare immaginando un ipotetico confronto tra il capo ingegnere di una grande azienda che si occupa di motori diesel e il suo collega che si occupa di auto elettriche e “new business”. Ce li immaginiamo così: il primo con una giacca troppo larga, sudato impegnato a lesinare il centesimo mentre i collaboratori migliori vengono spostati altrove per ridurre i costi. Da lui dipendono il 90% del fatturato e la totalità dei margini, ma conta poco o nulla e aspetta solo il giorno della pensione. Il secondo, più giovane, elegante viaggia per il mondo in hotel cinque stelle “per cogliere nuove opportunità” che finiscono sempre in un bagno di sangue per l’azienda. I vertici dell’azienda si aspettano che conquisti un mercato che ancora non c’è, che nasconda i limiti del prodotto e magnifichi i suoi vantaggi. Insomma, deve vendere fumo e lui che ha iniziato piazzando auto usate ci riesce benissimo.
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