Il nuovo Governo tedesco si presenta oggi al Bundestag forte del programma europeista già annunciato dalla coalizione “Semaforo” fra Spd, Grunen e Fdp. Ma il nuovo cancelliere Olaf Scholz è subito atteso al varco politico interno, geodiplomatico e finanziario su un interrogativo-chiave di primo livello europeo: la misura e la direzione della sua disponibilità a riformare il Patto di stabilità Ue.
Per la verità un cantiere di manutenzione straordinaria della governance economico-finanziaria dell’Unione era già stato aperto da Angela Merkel quasi due anni fa, assieme al Presidente francese Emmanuel Macron. Ma la pandemia ha impedito lo sviluppo di un passaggio voluto soprattutto da Parigi, con Berlino più cauta. Da allora, però tutto è cambiato.
Merkel ha appena lasciato il timone tedesco e la sua Cdu-Csu ha perso le elezioni di settembre. Scholz – vicecancelliere socialdemocratico e ministro delle Finanze nella coalizione con Cdu-Csu – si è inopinatamente imposto al voto e ha formato un’inedita coalizione a tre con Verdi e liberaldemocratici.
Il nuovo cancelliere non è nuovo a segnali di insofferenza per la rigida politica finanziaria ispirata al pareggio di bilancio dell’era-Merkel (soprattutto quando al ministero delle Finanze c’era il falco democristiano Wolfgang Schauble). Che la Germania “Semaforo” voglia e debba spendere di più è già nel programma: soprattutto per soddisfare le attese di investimenti straordinari nella transizione ecologica sollecitati dai Grunen. Ma gli stessi impegni (targati Spd) ad alzare il salario minimo e garantire la stabilità delle pensioni non paiono molto compatibili con un’ottica di austerity.
A gestire il bilancio pubblico è stato però chiamato il leader Fdp, Christian Lindner. Un personaggio che politica e mercati devono ancora scoprire a quell’altezza di incarico: per capire quanto l’ingresso nella coalizione di governo farà evolvere quella che finora è stato nelle sue posizioni un approccio ortodosso da “Paese frugale” del Nord Europa. Anche la classica avversione liberale per l’espansionismo della spesa pubblica è tuttavia alla prova: quella del “Recovery Plan” che la Germania merkeliana ha accettato in nome dell’emergenza-Covid. Un’emergenza che ora sta imponendo un ridisegno strutturale dell’Unione: nelle sue dimensioni produttive come in quelle istituzionali.
È quindi naturale che torni in incubazione, se non proprio un terzo Trattato dopo Roma 1957 e Maastricht 1991, almeno una robusta revisione di quello in vigore: in particolare nel sua “trinità dei parametri” che per trent’anni ha governato l’Europa tecnocratica. Quella che ha portato l’euro da semplice “sogno” a valuta di riferimento dell’economia globale assieme al dollaro.
L’euro ha superato la prova della crisi del 2008 (che ha seriamente minacciato il suo sistema bancario) e sta resistendo con efficacia alla pandemia. Sta tenendo assieme il Vecchio Continente scosso da Brexit o dalle tensioni fra Nord e Sud e fra Ovest ed Est. Ora è attaccato – forse per la prima volta – dall’inflazione, mentre le relazioni fra Usa, Cina e Russia premono sull’Ue da tutti i lati. Mettere in discussione il Patto di stabilità ora può sembrare un azzardo, ma può rivelarsi un errore anche non farlo. Certamente per Scholz i mesi d’esordio si presentano come una fase propizia: nell’attesa-speranza che fra quattro mesi anche Macron si ritrovi confermato all’Eliseo.
Nel frattempo il segnaposto italiano al tavolo della riforma Ue rimarrà occupato da Mario Draghi (si vedrà in quale Palazzo romano). Prima di metà 2022 la leadership Ue potrebbe quindi riconsolidarsi su un triangolo autorevole fra i tre Paesi fondatori.
Non sorprende che già si senta parlare di “quota 100” come di possibile nuovo valore-guida per il parametro più cruciale: quello che finora fissa al 60% lo standard del debito pubblico sul Pil. Una buona notizia per l’Italia, oggi a livello “greco” dopo aver accusato per anni febbre a 130? Dipende. Una revisione al rialzo del valore normale difficilmente potrà accompagnarsi ad ampi e duraturi margini di tolleranza. Se l’Ue scalpellerà “quota 100″ al posto di “quota 60” tutti i Paesi-membri dovranno convergervi: prevedibilmente in un arco di tempo ragionevole, concordato. La scadenza del Recovery Plan – nel 2026 – appare un’ipotesi di lavoro credibile: forse per l’assunzione di impegni fermi da parte di ogni singolo Paese. Impegni che saranno con ogni probabilità sotto la sorveglianza di un nuovo “ministro delle Finanze Ue”. Una figura che sarà molto diversa dalle attuali figure commissariali nell’esecutivo di Bruxelles.
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