Cresce il ruolo degli influencer nel turismo. Spesso, però, non offrono un servizio utile né ai viaggiatori, né al settore
Nel 1974 Paolo Conte, il vero poeta della musica (mica tanto) leggera italiana, in “Una giornata al mare” scriveva: “Sono venuto a vedere quest’acqua e la gente che c’è, il sole che splende più forte, il frastuono del mondo cos’è. Cerco ragioni e motivi di questa vita, ma l’epoca mia sembra fatta di poche ore”.
Oggi, cinquant’anni dopo, nell’estate del mordi e fuggi, delle vacanze giornaliere, l’epoca nostra sembra diventata misurabile non più in ore, ma in istanti, memorizzabili in un click, in un selfie che riassume la nuova filosofia del turista: non vedere acqua, gente, sole, ma farsi vedere, a testimonianza che si era lì, in quel posto possibilmente condiviso da più instagrammisti possibile, e suggeriti dagli influencer, quindi figo.
Si è già detto e scritto fin troppo per denunciare la perniciosa permeabilità alle “dritte”, la Hisa (highly impressionable and susceptible to advertising), quella debolezza che nasconde una certa pigrizia mentale che fa sì ci si faccia manipolare dall’influencer marketing piuttosto che spendere tempo per informarsi meglio, cercare, ascoltare più fonti, curiosare, capire. E, per contro, non si sono ancora sottolineati abbastanza i risultati ottenuti dalle destinazioni che si sono affidate proprio agli influencer per sponsorizzarsi: flussi lievitati senza che gli apparati ricettivi fossero adeguati, saturazione degli spazi nell’immediato ma con esaurimento rapido degli effetti, overtourism.
I “content creator” in Italia sono più numerosi che in qualsiasi altro Paese europeo. Secondo il rapporto I-Com (l’istituto per la competitività) l’anno scorso si contavano 82 influencer ogni 100 mila abitanti, per un totale di 37.700 content creator. Il 28% di questi professionisti considera il creare (e sponsorizzare) contenuti la sua principale occupazione. Il giro d’affari supera i 4 miliardi di euro, e si frantuma in una valanga di lcc (little content creator), cioè non solo tra i big alla Ferrragni, ma tra piccoli, a volte piccolissimi influencer della porta accanto.
Il Sole 24 Ore riporta che “i nuovi range, ricavati anche nel 2025 per ciascuna categoria di creator sulle quattro piattaforme – Facebook, Instagram, TikTok e Youtube – vedono aumentare su Instagram i compensi dei Micro influencer (da 10mila e 50mila follower) del 33% e dei Mid-Tier (dai 50mila ai 300mila follower) dell’8,3%: per loro sale da 1.000 a 1.500 euro quello che è, rispettivamente, il valore massimo e il valore minimo per contenuto”. Idem per le altre piattaforme.
Dallo scorso aprile in Italia è stato introdotto il codice Ateco 73.11.03, varato appositamente per i creator digitali, chiamati ad aprire una partita Iva: è un primo passo nella regolamentazione di un lavoro che negli ultimi anni ha generato un impatto economico significativo, pur in zona grigia normativa.
Ma non sono le norme, pur indispensabili, e la perequazione fiscale, troppo a lungo vergognosamente disattesa, a rendere il settore “influenza digitale” più accettabile o comprensibile. A disarmare è l’affidarsi supinamente dei turisti per caso ai “consigli per gli acquisti”, pardon, “per i viaggi” di chi magari quelle destinazioni indicate non le ha mai viste, e le reclamizza solo per il compenso pattuito con le Apt di turno.
Immaginare il futuro di un settore così vitale, qual è l’industria del turismo, legato alle variazioni imprevedibili di un algoritmo che gestisce la stabilità di un qualsiasi brand fa rabbrividire. Ma assistere all’abdicazione del pensiero cosciente, dell’opinione in-formata individualmente, a favore di chi ha svenduto il proprio pensiero al mercato dell’influencer marketing fa supporre che l’intelligenza artificiale tra non molto sarà l’unica superstite.
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