L'offensiva di Israele contro l'Iran crea non pochi problemi alla sinistra italiana, che era scesa in piazza subito prima del referendum
Nove giorni fa – alla vigilia del referendum – la sinistra italiana ha riempito le piazze di Roma per una grande protesta contro Israele, condannato come antitesi globale di ogni ricerca di coesistenza pacifica e fors’anche della stessa idea di democrazia. Il fine di quella manifestazione era strumentale: l’obiettivo reale era dare una spinta extra all’affluenza, quando già si apprestavano i seggi per la domenica elettorale.
Nel febbraio 2024 un effetto vincente per la sinistra era stato prodotto nel voto regionale in Sardegna dai cortei antagonisti di Pisa contro Israele, contrastati dalle forze dell’ordine ma difesi e giustificati dal Quirinale nel sabato pre-elettorale.
Poco più di una settimana dopo i promotori del referendum appaiono ancora groggy per una spallata subita e non inferta, com’era negli intenti e nelle attese. Israele ha intanto scatenato contro l’Iran un’offensiva che ha tutte le apparenze di pezzo definitivo della Terza guerra mondiale. Con un esito indubbio: ricompattare l’Occidente attorno a Bibi Netanyahu nel weekend del G7; depotenziando nel frattempo la centralità mediatica della crisi di Gaza e delle contestazioni a Donald Trump in California.
La sinistra italiana, uscita sconfitta e divisa dal voto interno su lavoro e migranti, si ritrova così in una posizione più difficile anche sul versante geopolitico. Non sarà facile contestare il Governo italiano nella conferma dell’appoggio diplomatico mai fatto mancare finora a Israele, in allineamento con gli Usa di Joe Biden e ora di Trump.
Sarà molto complicato quando Netanyahu veste nuovamente i panni di difensore dell’Occidente democratico contro il Paese-perno del cosiddetto “Asse della Resistenza”. Contro un Paese che nella sostanza è un’autocrazia islamica, abituata a incarcerare le donne disobbedienti (recentemente anche la giornalista italiana Cecilia Sala), a impiccare giovani gay, ad alimentare il terrorismo estremista ovunque sul pianeta.
Un Iran che – tradendo patti e trattative con Usa e Ue – persegue l’intento di trasformarsi in una Corea del Nord nucleare alle porte di Israele ed Europa. Per la leader del Pd, Elly Schlein, non si annuncia tuttavia facile evitare che l’Iran che cacciò lo Scià e prese in ostaggio gli americani dell’ambasciata ridiventi un feticcio della sinistra “antimperialista”, come dieci anni prima il Vietnam.
Sul fronte internazionale ulteriori complicazioni sembrano legate al fatto che l’Ue sta già abbassando i toni su Gaza, mentre sia la Francia di Emmanuel Macron, sia la Gran Bretagna del laburista Keir Starmer hanno subito stemperato le loro criticità recenti verso Gerusalemme. Per non parlare degli Usa: dove ai cortei in California continua a contrapporsi l’apatia “dem” nei confronti della Casa Bianca (e del suo alleato israeliano) e lo stesso circuito media-accademico liberal mostra pochi dubbi nel giustificare l’ennesimo atto di “auto-difesa” di Israele.
Schlein ha passaporto americano, è stata campaigner di Barack Obama e Joe Biden ed è figlia di un politologo liberal israelita: oggi paiono tutti potenziali handicap. Soprattutto verso gli incerti partner del Pd del “campo largo” della sinistra italiana (Avs e M5S) che ha appena fallito la prova referendaria. Qui l’anti-sionismo storico della sinistra nazionale può rivelarsi un “diverso parere” analogo a quello espresso dal 35% di “No” al referendum sulla cittadinanza.
Di qui la prospettiva di una radicalizzazione ulteriore di un'”opposizione resistenziale”: a maggior ragione quando i media rilanciano le immagini – per alcuni invitanti – di quasi-guerra civile a Los Angeles, su una frontiera migratoria, territoriale e politica.
Appare tuttavia una tendenza opposta alla costruzione di una campagna elettorale con effettive aspirazioni di vittoria nel 2027. Sembra invece l’umore di una trincea politico-culturale ispirata al puro superamento della “nottata delle destre” fra Usa ed Europa. Una postura talmente basica da cestinare con apparente disinvoltura anche la lunga campagna contro l’odio antisemita cavalcata per anni dietro l’icona della senatrice a vita Liliana Segre.
È un quadro in cui anche la componente cattodem del Pd appare destinata a essere messa sotto ulteriore pressione dal conflitto sempre più evidente fra istanze pacifiste (certamente allineate con il magistero pastorale e il ruolo geopolitico della Chiesa) e neo-realismo europeista orientato al riarmo.
Per questo non ha affatto stupito, negli ultimi giorni, leggere sulla Stampa una riflessione di Marcello Sorgi sulla “corsa al Quirinale”. Un memo apparentemente fuori tempo: il mandato del presidente Sergio Mattarella scade sulla carta solo fra quattro anni. È vero che il dossier-premierato dovrà essere in qualche modo risolto prima. Le onde sismiche di un referendum dall’esito in qualche modo imprevisto – seguito poi dal nuovo terremoto geopolitico – stanno intanto producendo effetti inattesi.
Agli osservatori politico-istituzionali, ad esempio, non è sfuggita un’intervista del Presidente della Corte Costituzionale, Giovanni Amoroso: a legittimare a caldo l’opzione di abbassamento del quorum referendario. È parsa nei fatti l’offerta di un puntello giustificativo al fronte referendario perdente, unita all’apertura – più politica che istituzionale dietro le sembianze tecnico-legali – al cambiamento rapido di un singolo articolo della Costituzione (“più bella del mondo”).
E questo è giunto da parte del capo del massimo organismo di garanzia costituzionale su una questione che sarebbe di esclusiva competenza del Parlamento sovrano e su cui in futuro la Consulta potrebbe essere chiamata a pronunciarsi nell’ambito stretto delle sue prerogative, lontano da ogni in libera opinione, soprattutto preventiva.
La mossa di Amoroso è evidentemente parsa anomala se il giorno dopo, sulla stessa testata, è comparso un editoriale di segno contrario firmato da Sabino Cassese, giudice emerito e costituzionalista vicino a Mattarella. Tanto è stato: a riprova di molto nervosismo nel perimetro di un’opposizione che non sembra avere molte cautele nel disegnare la sua ampiezza.
Senza dimenticare che Amoroso – ex magistrato del lavoro, in carica al vertice della Consulta fino al novembre 2026 – non è stato designato dal Parlamento o dal Quirinale ma da un voto interno fra 300 magistrati della Corte di Cassazione. Una delle centrali del potere “separato” giudiziario, in trincea contro la maggioranza di governo sulla riforma della giustizia.
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