È interessante osservare quel che sta accadendo in Norvegia, Paese in cui il riarmo europeo sta creando qualche problema
La Norvegia resta un istruttivo caso occidentale nella crisi geopolitica. Lo è dall’inizio del conflitto russo-ucraino, che ha subito acceso l’inflazione energetica e gonfiato fatturato e profitti del settimo produttore mondiale di gas. Sono stimati in 100 miliardi di dollari gli extra-ricavi di Oslo nel 2022/23: in gran parte realizzati in seguito a un incremento “da sanzioni” dell’import da parte dell’area Ue, di cui la Norvegia non fa parte.
Oslo ha sempre resistito alle sollecitazioni ad applicare prezzi di solidarietà agli altri Paesi europei oppure a riversare parte degli extraprofitti di guerra ai fondi Ue e Nato di sostegno all’Ucraina. Ad alimentare la polemica ha contribuito anche il fatto che segretario generale della Nato – fino al luglio scorso – fosse l’ex Premier norvegese Jens Stoltenberg: irriducibile voce guerrafondaia di ferrea osservanza Usa.
Il caso non si è arenato con la relativa normalizzazione del mercato del gas. Si è arricchito anzi di capitoli nuovi, squisitamente politici all’interno del Paese scandinavo, che in settembre sarà chiamato a rinnovare il Parlamento. Se la Costituzione non obbligasse al rispetto della scadenza quadriennale, Oslo avrebbe anzi già dovuto chiamare elezioni anticipate.
A fine gennaio, infatti, la coalizione di centrosinistra (laburisti e centristi) a sostegno del Premier Jonas Store si è dissolta sul terreno della transizione energetica. Il Partito di Centro (ex Partito Agrario) continua a opporsi all’adeguamento di Oslo alle normative verdi Ue (il Paese ha respinto già trent’anni fa per referendum l’adesione all’Unione). La coalizione in carica dal voto 2021 era già di minoranza, pur avendo i laburisti sconfitto nelle urne il Partiti Conservatore, al governo nel quadriennio precedente.
Sono poi bastati pochi giorni, in ogni caso, per far emergere il vero nodo politico-finanziario: la partecipazione del Paese al riarmo europeo e l’uso degli extraprofitti di guerra.
Questi ultimi (realizzati dallo Stato attraverso il braccio Equinor nell’estrazione di petrolio e gas nel Mare del Nord) sono infatti confluiti nel fondo sovrano Norges: uno dei più grandi del pianeta con oltre 1.800 miliardi di dollari di patrimonio (detiene l’1,5% dell’intero valore azionario globale e i suoi utili vanno a finanziare largamente il welfare per 5,5 milioni di norvegesi). Norges ha sempre vincolato strettamente i suoi investimenti ai principi Esg: che vietano – fra l’altro, in via esemplare – l’impegno in imprese produttrici di armi.
La crisi geopolitica e da ultimo la spinte al riarmo europeo e quelle della nuova Amministrazione Usa per lo smantellamento dei principi Esg hanno iniziato a premere in misura crescente su Oslo e su Norges: finendo per rendere il nesso finanza-armi un tema centrale della campagna elettorale nel Paese.
È soprattutto l’opposizione di centrodestra a invocare per il fondo sovrano nazionale la libertà totale di investimento, anche in attività legate a sicurezza e difesa. Con due obiettivi evidenti: il primo è sfruttare ulteriormente la nuova stagione bellicista globale a fini finanziari-speculativi per Norges; il secondo è utilizzare la leva del fondo per realizzare la partecipazione norvegese al riarmo europeo.
Oslo – che fa parte della Nato – non ha partecipato al summit di Londra, fondativo della cosiddetta “Lega dei Volenterosi”, ma ha annunciato successivamente la sua adesione al progetto. Nel frattempo i leader del Partito Conservatore e del Partito del Progresso stanno bombardando come “illogico” e “ipocrita” l’immobilismo del Governo a difesa dei vincoli anti-riarmo di Esg a Norges. Nel Governo di ultra-minoranza come monocolore laburista, tuttavia, qualcosa si muove: subito dopo la crisi è stato chiamato come ministro delle Finanze lo stesso Stoltenberg, storicamente appartenente al Labour, ma negli ultimi sei anni poi a capo del Patto atlantico.
La sinistra norvegese – rappresentata allo “Storting” da altri due partiti oltre ai laburisti – resta ovviamente contraria all’abbandono della cultura della finanza sostenibilità attorno cui Norges è stato modellato. Ma anche la Scandinavia – “civilissima” per antonomasia – si ritrova in un passaggio epocale di estremo impegno.
Le vicine Finlandia e Svezia (quest’ultima il Paese di Greta Thunberg) sono corse a ripararsi nella Nato quando la vicina Russia ha aggredito l’Ucraina. La Danimarca sta intanto resistendo a fatica alla pressione di Donald Trump sulla Groenlandia. E il sogno di Copenaghen di mantenere la “Terra Verde” nell’Artico come santuario di ecologismo integrale si sta infrangendo proprio nella trasformazione della calotta nord del pianeta in un nuovo teatro di guerra.
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